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«Come è possibile che la politica si opponga a un intervento sul carcere giudicato con favore sia dai magistrati e che avvocati?». La domanda di Giovanni Legnini riassume tutta l’insensatezza del no alla riforma penitenziaria. È per questo che il vicepresidente del Csm, dal palco della manifestazione organizzata dai penalisti, non si rassegna all’ostruzionismo delle Camere: «Rivolgo l’appello al nuovo Parlamento affinché esprima al più presto i pareri previsti per consentire al legislatore delegato di completare l’iter. Come avvocato e come uomo delle istituzioni», ribadisce Legnini, «condivido totalmente la posizione delle Camere penali e dell’avvocatura su questa materia, e la sostengo». Quanto al Csm, ricor- da il vicepresidente dell’organo di autogoverno delle toghe, «ha offerto un punto di vista approfondito ed esplicito, espresso con un parere largamente favorevole in occasione della discussione parlamentare sulla legge delega. Nel nostro Paese, soprattutto in materia di giustizia, spesso ci siamo lamentati del fatto che le riforme non fossero organiche, che non tenessero conto delle opinioni degli operatori del settore, e delle indicazioni degli organi giurisdizionali: ora ci troviamo di fronte a un caso forse unico, comunque raro, in cui queste obiezioni non possono essere rivolte al legislatore. Questa riforma», ricorda ancora Legnini, «è figlia degli Stati generali dell’esecuzione penale, ma anche delle battaglie radicali, e tiene conto dei principi enunciati dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione, nonché della giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Di fronte all’apporto così plurale e approfondito si può obiettare che quella ispirazione non è condivisibile, ma di certo non si deve sostenere che quel pacchetto così prezioso di disposizioni produrrebbe effetti come quelli indicati da più parti, anche da qualche fonte magistratuale, pasri a quelli di uno svuota- carceri: bisogna avere l’umiltà di entrare nel merito, e nel merito quei problemi non ci sono». E poi, richiamando alla memoria l’accordo stilato nel luglio 2016 tra il Csm e il Cnf, nato tra l’altro come si legge nell’atto costitutivo - per “conseguire un miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia italiana”, Legnini ha concluso chiedendo appunto «alle istituzioni rappresentative com’è possibile che una riforma del genere, condivisa insiene dalla magistratura e dall’avvocatura, improntata a un sistema giudiziario più efficiente, non decolli». Alla sala convegni di via della Ripetta è intervenuta anche la vicepresidente della quinta e della sesta commissione del Csm, Paola Balducci: «Bisogna fronteggiare questo populismo imperante, questa situazione politica così delicata in cui l’ansia di sicurezza rischia di far accantonare questa riforma. Questa è una battaglia di civiltà e i nostri costituenti con l’articolo 27 ce lo ricordano. Mobilitiamoci per vedere se è possibile chiudere il percorso». E per farlo, secondo il direttore del Dubbio Piero Sansonetti, occorre «riorganizzare un campo di lotta che non abbia paura di promuovere idee di sviluppo e non di riduzione della Costituzione. La battaglia garantista a favore dello Stato di diritto non porta consensi, tutti sono tentati prima o poi di seguire il vento populista. Ma, assodato che in ogni componente politica c’è una maggioranza o una corrente trasversale garantista, è importante capire come riorganizzare queste forze. In questo l’avvocatura può assumere un ruolo fondamentale». Ha concordato con lui Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, secondo il quale «nel mondo dei contrari ci sono sensibilità diverse, persino nel Movimento cinquestelle. Bene, questo mondo va disarticolato: occorre rompere, ad esempio, l’egemonia di Gasparri in Forza Italia. Qualora il governo dovesse approvare la riforma non vorrei che ci trovassimo in una campagna elettorale dove tutti la usano strumentalmente contro». In una fase del genere è fondamentale l’operato dei «corpi intermedi che debbono farsi carico non solo dei provvedimenti ma di costruire culture diverse e parole diverse per raccontare la complessità delle carceri», ha sottolineato il presidente dell’Autorità garante dei detenuti Mauro Palma, che ha aggiunto: «In una situazione di vuoto politico si affermano due parole d’ordine: retribuzione e sofferenza, per cui il carcere deve essere afflizione aggiuntiva. Dobbiamo invece avere il coraggio di riaffermare il principio per cui la privazione della libertà è il massimo della sofferenza che uno Stato è chiamato a dare».
E sul concetto di pena si è concentrata anche Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito radicale: «Il carcere è una realtà di disperazione: lo dimostrano gli atti di autolesionismo dei detenuti e i suicidi. Nelle carceri incontriamo moltissimi tossicodipendenti, malati psichiatrici, poveri delle periferie degradate, i mafiosi sono pochissimi. La cosa più difficile in questo Paese è discutere di giustizia, grandi pro- cessi a parte. Un confronto sulla giustizia che riguarda il cittadino è assente». Bernardini ha concluso: «Il ministro Orlando, lo scorso 20 febbraio da Strasburgo, diede la riforma come approvata. Tutti sappiamo come è andata a finire. E in gioco ora è la tenuta democratica del nostro Paese in cui un’azione nonviolenta di diecimila detenuti non è stata minimamente presa in considerazione» .