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Legalità e giustizia coincidono sempre? È questo il quesito da cui prende le mosse il convegno “La vera legalità”, organizzato dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, per commemorare gli 80 anni delle leggi razziali. Nella sala capitolare del convento di Santa Maria sopra Minerva, politici e giuristi si interrogano su come sia stato possibile scrivere una delle pagine più vergognose della storia italiana. Sul pulpito si alternano la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, il primo presidente emerito della Cassazione Andrea Canzio, il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, il presidente del Consiglio nazionale del notariato Salvatore Lombardo e il comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri.
Tutti gli interventi convergono su un punto: non basta onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, bisogna scavare, individuare le corresponsabilità - legali, morali, storiche - che portarono all’emanazione, all’esecuzione e all’applicazione delle leggi razziali. Perché per un ministro della Giustizia che firmò quei provvedimenti, ci furono magistrati che perseguirono e Tribunali che condannarono. E quasi tutta la cultura giuridica italiana che sostenne e contribuì a quell’ignominia. «Siamo qui per ricordare le leggi razziali, che possiamo definire tranquillamente razziste, la pagina più vergognosa della nostra storia perché ammantate dalla legalità, fu un’ingiustizia di Stato», esordisce Maria Elena Boschi. «Ma la storia si è incaricata di dirci anche chi stava dalla parte giusta e chi da quella sbagliata, per scongiurare non solo l’oblio ma anche la confusione». Per la sottosegretaria, il 27 gennaio ( giornata della memoria) non può essere solo una data commemorativa, deve servire come guida per il futuro. «Non possiamo dare per acquisiti dei valori una volta per tutte, vanno resi vivi nella nostra comunità», prosegue Boschi, che poi non rinuncia a un accenno alla cronaca politica. Nel mirino dell’ex ministra finisce il candidato leghista alla Regione Lombardia, Attilio Fontana: «Se qualcuno ancora oggi parla di razza oggi perché porta consensi significa che dobbiamo interrogarci e chiedere ai ragazzi di raccogliere il testimone del ricordo».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Giovanni Canzio, che, da magistrato, riflette sulle responsabilità della sua categoria dalla marcia su Roma in poi. «Come si può passare da una commemorazione formale a una di contenuti?», si chiede il presidente emerito della Cassazione. «Rispettando la verità, cercando le responsabilità, testimoniando su fatti». Il fascismo, a partire dal ‘ 23, ricorda Canzio, deliberò «la compressione dell’indipendenza della magistratura, ponendola alle dipendenze del regime. Il che rese più complicata l’opera ermeneutica dei giudici». Magistrati scomodi e professori non allineati furono allontanati dai loro ruoli. Altri furono costretti alle dimissioni “volontarie”. «Voglio ricordare però la figura luminosa di Mario Fini, magistrato a 24 anni, fu dispensata dal servizio. Andò a insegnare alla scuola ebraica di Bologna e fu rinchiuso prima a Fossoli, poi ad Auschwitz. E il giudice Vincenzo Giusto che morì da partigiano». Ma a parte rarissimi esempi di disobbedienza, «La stragrande maggioranza dei giuristi dell’epoca costituirono un’estesa zona grigia, non brillarono per coraggio. Ci furono magistrati, avvocati, giuristi che non solo contribuirono alla scrittura delle leggi razziali ma anche alla loro applicazione», continua Canzio che punta il dito su tutta la dottrina giuridica dell’epoca. «Chi scrisse quelle norme? quale dottrina contribuì al diritto diseguale che tolse prima i diritti e poi la vita? Il diritto vivente o non si formò o si formò in modo adesivo al regime». Solo con la Liberazione risbocciò il diritto. «La mia generazione ha goduto di una totale indipendenza ma dico sempre ai miei colleghi: non c’è nulla di eterno. un Paese smemorato può commettere gli stessi errori».
Il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, invece, prende la parola non per indagare sul passato ma per interrogarsi sul futuro. «Approfitto di questa occasione per lanciare un dubbio», dice. «Perché a volte il ricordo di questi eventi finisce per essere un esercizio intellettuale per cui è semplice indignarsi e prendere le distanze. Quando pensiamo ai campi di sterminio e al manifesto della razza è facile concludere che siamo di fronte a qualcosa di mostruoso, così mostruoso che certamente non accadrà più», spiega Mascherin. «Ma la sfida è attualizzare il tema. Sicuri che quell’inferno, quella cultura, non sia in essere anche nella nostra società sotto mentite spoglie? Che cos’è l’immagine di una paziente americana inferma di mente presa di peso e portata via dall’ospedale perché senza assicurazione? Tutto ciò è razzismo, rifiuto, mancanza di solidarietà, proprio come accadeva in altri tempi», insiste. «E siamo sicuri che negare il diritto al cibo e all’acqua non sia simile a quella aberrazione? Coltiviamo la memoria ma onoriamola con l’impegno su ciò che accade oggi. Attualizziamolo perché non accada più».