Dietro le fredde statistiche delle carceri mondiali si nasconde un enigma che sfida sociologi, criminologi e legislatori: perché le donne rappresentano solo il 6,9% della popolazione carceraria globale? Un dato sorprendentemente basso, che resiste a ogni spiegazione univoca, attraversando indenne confini culturali, religiosi e politici. Dall’Albania conservatrice alla Scandinavia progressista, dall’America iper-carceraria al Giappone punitivo, le cifre raccontano una storia di marginalità femminile che non si piega alle aspettative.

EUROPA: UN MOSAICO DI CONTRADDIZIONI

Secondo il rapporto di Antigone, nei 46 paesi del Consiglio d’Europa le donne in carcere sono in media il 5,4%, ma i numeri nascondono realtà diametralmente opposte. L’Italia è al 4-4,5%, mentre all’estremo più basso c’è l’Albania, con appena l’1,2% di detenute, mentre la Repubblica Ceca svetta all’8,5%. Tra le democrazie avanzate, la Germania si ferma al 5,6%, la Svizzera al 6%, e la Spagna al 7,1%.

Persino la Scandinavia, modello di parità di genere, non sfugge a uno strano paradosso se confrontato con altri Paesi: in Danimarca le donne sono il 4,8% dei detenuti, in Finlandia il 7,1%, ma i tassi di incarcerazione restano bassi (3,5-4,3 ogni 100.000 donne). A Est, invece, i numeri raccontano un’altra storia. In Polonia, dove ad esempio l’aborto è quasi totalmente vietato, le detenute sono raddoppiate in 20 anni (4,9%), mentre l’Ungheria di Orbán registra un tasso di detenzione femminile di 14,7 ogni 100.000 donne, il doppio della media continentale. In Russia le donne sono quasi il 9% dei reclusi, con un tasso di 27,1, tra i più alti al mondo. Un fenomeno europeo che potrebbe legarsi a un nesso dove meno diritti sulle donne = più carcerazione.

Carcere

Affettività negata e Icam chiusi: un dramma al femminile

Affettività negata e Icam chiusi: un dramma al femminile
Affettività negata e Icam chiusi: un dramma al femminile

STATI UNITI: IL GIGANTE CARCERARIO IN ROSA

Oltreoceano, il quadro si fa drammatico. Con 64,2 detenute ogni 100.000 donne, gli Usa hanno un tasso di incarcerazione femminile 15 volte superiore a quello italiano. Le donne rappresentano il 10,2% della popolazione carceraria, numeri che riflettono un sistema giudiziario iper-repressivo: se fossero uno Stato a parte, le detenute americane formerebbero la 13ª popolazione carceraria al mondo. Eppure, persino qui, il divario di genere persiste: gli uomini hanno tassi 10 volte maggiori.

In Asia, i dati sfidano ogni stereotipo. Se in Giappone le detenute sono l’8,6% con un tasso bassissimo (3,2), a Hong Kong, Macao e Qatar si raggiungono picchi del 19,7%, 14,8% e 14,7% rispettivamente. Numeri che cozzano con l’1% di Israele e lo Yemen, accomunati da percentuali irrisorie nonostante opposti contesti religiosi.

Cosa unisce Paesi così diversi? Forse il controllo sociale sulle donne, che in alcuni casi previene il crimine, in altri lo criminalizza in modo selettivo. In Africa, i tassi sono ancora più bassi: dall’1% della Mauritania al 10,9% del Sud Sudan. Ma quanto pesa l’opacità dei dati? In Iran o Cina, dove regimi autoritari controllano l’informazione, le statistiche ufficiali (8,6% di donne detenute in Cina) lasciano spazio al dubbio, soprattutto dopo le rivolte del 2022.

Carcere

La doppia pena delle donne in carcere

La doppia pena delle donne in carcere
La doppia pena delle donne in carcere

IL ROMPICAPO CRIMINOLOGICO

Perché le donne finiscono in carcere così raramente? Le teorie si sprecano: minore propensione alla violenza, ruoli sociali tradizionali, maggiore utilizzo di misure alternative. Ma nessuna spiegazione regge su scala globale. Neppure l’emancipazione femminile altera la tendenza: in Norvegia come in Arabia Saudita, le detenute restano una minoranza. Forse, suggeriscono alcuni studi, le donne sono più spesso coinvolte in reati non violenti (furti, frodi), puniti con pene non detentive. O forse, come ipotizza l’antropologa Rita Segato, il sistema giudiziario è plasmato su dinamiche maschili, rendendo le donne “invisibili” persino nel crimine. Una cosa è certa: dietro ogni percentuale ci sono storie di marginalità. Come in Romania, dove il 4,4% delle detenute sono Rom, vittime di doppia discriminazione. O in El Salvador, dove gang e povertà spingono il tasso femminile al 41,7, il più alto delle Americhe.

Dietro i numeri bassi delle detenute si nasconde un paradosso: non è che le donne delinquono meno, è che il sistema le intercetta di meno. A rivelarlo è l’analisi di Giulia Fabini di Antigone, che invita a guardare oltre le statistiche, verso il “numero oscuro” della criminalità non registrata. Un concetto chiave per decifrare il mistero: tra il reato commesso e la cella si frappongono una serie di filtri sociali, economici e culturali che operano in modo sistematicamente discriminatorio. «Il carcere non misura la criminalità, ma la selettività del sistema», spiega Fabini nel report.

Ogni passaggio della macchina giudiziaria assomiglia a un setaccio che trattiene soprattutto uomini, poveri, migranti e minoranze. Le donne, specie se benestanti o integrate, sfuggono più facilmente alla rete. Basti pensare che in Italia, secondo dati Antigone, il 70% delle detenute proviene da contesti di marginalità estrema, spesso con storie di violenza alle spalle. Numeri che chiedono non solo analisi, ma soluzioni: se le donne sono così “poche” in carcere, perché non ripensare totalmente il sistema punitivo per loro?