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“Nofee till you’re free'( Nessun costo finché non sei libero): così l’avvocato Stone, interpretato da uno straordinario John Turturro, pubblicizza, nell’altrettanto straordinaria serie tv ‘ The night of’, la sua attività su una cartellonistica nella metro di New York. Negli Usa non è difficile imbattersi in questo tipo di sponsorizzazione della professione legale. In Italia invece questa pubblicità sfacciata non ha ancora interessato il campo giuridico. Però il dibattito sta per accendersi anche qui, dal prossimo 18 febbraio quando a Trapani si terrà la prima udienza di un processo in cui dieci avvocati sono accusati di diffamazione nei confronti di un altro avvocato. La presunta vittima: Antonino Sugamele del Foro di Trapani; gli imputati: dieci suoi colleghi che avrebbero ‘ in concorso tra loro, mediante messaggi e post pubblicati” su Facebook, recato “lesione” al suo onore e alla sua reputazione professionale. I fatti risalgono al 2014 quando l’avvocato Sugamele scrive sul social network: “La nostra esperienza il tuo successo. Sei indagato? Contattaci Troveremo insieme una soluzione”. Il post viene condiviso e commentato sarcasticamente dall’avvocato Enrico Trantino: “Rilancio. Amico indagato, oltre a un’assistenza qualificata e personalizzata per risolvere i tuoi problemi, il nostro studio ti offre tisane e massaggi rilassanti, un materasso in lattice e un televisore Lcd 32 pollici”. Altri avvocati corrono a dire la loro, tra questi il noto avvocato di Roma Cataldo Intrieri: “Le nuove frontiere della professione: ‘ Ergastolo? Custodia cautelare? Il tuo vecchio avvocato non risolve il problema? Franc noi offriamo il mojito”. Sugamele sporge denuncia. Commentiamo proprio con Intrieri, difeso dall’avv. Marco Siragusa.
Avvocato, lei insieme ad altri nove, avrebbe diffamato Sugamele.
Il mio non voleva essere un commento contro la persona e la reputazione del collega. Ho fatto un commento ironico sull’uso inappropriato della pubblicità forense.
Lei definisce quello di Sugamele un post grottesco. Perché?
Il collega ha mutuato una forma di espressione tipica della pubblicità ordinaria di tipo commerciale e l’ha trasposta nel campo del processo penale connaturato da ben altra gravità. L’effetto che lui fa scaturire è un effetto involontariamente grottesco che ho evidenziato nel mio commento. E poi, nel momento in cui si decide di farsi pubblicità e propaganda su Facebook ci si deve sottoporre anche al diritto di critica. Ribadisco che non si tratta di un commento alla persona ma ad un modo di fare pubblicità che per quanto mi concerne sfiora quasi la comunicazione ingannevole perché non c’è avvocato che possa risolvere i problemi legali come se si trattasse di far dimagrire una persona o ristrutturare un appartamento.
Lei sempre su Facebook scrive che questa vicenda tocca diversi temi tra cui i criteri di obbligatorietà dell’azione penale. Può spiegare meglio?
Qui più che i profili penali sono da rilevare quelli deontologici e disciplinari. O abbiamo sbagliato noi a fare quei commenti o ha sbagliato il collega a fare quel tipo di comunicazione. Gli ordini preposti e i consigli disciplinari dovrebbero esprimersi e darci una risposta. Al momento poi c’è una forte polemica in tema di prescrizione: si sostiene che sia necessario bloccarla altrimenti i processi non si fanno. Al contrario bisognerebbe procedere ad una robusta depenalizzazione e poi soprattutto applicare istituti, come l’irrilevanza del fatto, oppure semplicemente riconoscere che vicende come questa non hanno risvolto penale. Si tratta di una vicenda che al massimo deve configurarsi come questione disciplinare, deontologica. Che si vada a fare un processo penale con dieci imputati è qualcosa che non comprendo come avvocato, a prescindere dal mio coinvolgimento. È un gatto che si morde la coda: da un lato ci si lamenta dell’eccesso di denunce e dall’altro non si fa nulla per filtrare questo eccesso di denunce che spesso sono espressione di permalosità personale.