di Giuliano Pisapia e Martino Liva
Mancano due mesi al 12 giugno, il giorno in cui si voterà per i referendum sulla giustizia ammessi dalla Corte Costituzionale lo scorso 8 febbraio. Non sappiamo ancora se oggetto del voto saranno tutti i cinque quesiti o se alcuni saranno “inglobati” nella riforma della giustizia al vaglio delle Camere.
I referendum per loro natura non sempre riescono a risolvere il problema che dovrebbero affrontare. Ci sono esempi fin troppo noti a partire da quello sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987, del resto anche le leggi non sempre sono la soluzione ottimale come osserva Ernesto Maria Ruffini nel bel saggio Uguali per Costituzione. La deliberazione della Consulta, guidata da
Giuliano Amato, ha ancora una volta rimandato al Parlamento la decisione sulle materie relative ai quesiti non ammessi e, ancora una volta, ha voluto o dovuto?) indicare nelle motivazioni delle sentenze anche una possibile strada da seguire per dare una risposta a modifiche legislative richieste a da tempo. Ed è grave che, malgrado i ripetuti richiami della Corte Costituzionale, il legislatore non sia mai riuscito, o non abbia mai voluto, approvare una legge su temi che sono all’ordine del giorno della società italiana da molto tempo, a partire dal fine vita e dal contrasto alla tossicodipendenza. Quanto ai referendum ammessi, quanti e quali voteremo davvero il 12 giugno. Voteremo su tutti i 5 quesiti ? E, in caso negativo, perché? E per decisione di chi? Appare certo il voto referendario sulla legge Severino e la restrizione dell’applicabilità delle misure cautelari, mentre gli altri tre quesiti (separazione delle funzioni, firme per la presentazione delle candidature alle elezioni dei togati del
CSM, e attività dei consigli giudiziari) riguardano norme ricomprese nel disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM su cui ormai da molti mesi sta lavorando la ministra della Giustizia
Marta Cartabia.
Cosa accadrebbe in caso di modifica di norme su cui pende il referendum? La risposta è in una sentenza della Corte Costituzionale ( 68/ 1978) che, per evitare frustrazioni del corpo elettorale ( e furberie della politica), stabilì che
un referendum non muore se poco prima della consultazione si abroga la norma oggetto del quesito trasferendola «dalla legislazione precedente alla successiva». Ciò avviene quando la nuova norma «rimane fondamentalmente identica», cioè uguale per «principi ispiratori» e «contenuti dei singoli precetti». Se invece la nuova norma è «fondamentalmente diversa, nel senso che i principi ispiratori sono mutati rispetto alla precedente disciplina della materia» allora «potrà essere ritenuto legittimo il blocco delle operazioni referendarie».
A chi spetta la decisione di bloccare o meno la consultazione referendaria? La risposta è chiara.
L’Ufficio Centrale per i referendum presso la Cassazione, dopo aver sentito l’opinione dei promotori, ha la possibilità di modificare il quesito, fino al punto di sostituire la vecchia norma con la nuova. Il tutto con un nuovo passaggio alla Corte Costituzionale per l’ammissione del nuovo quesito. Una procedura forse complicata ( lo immaginava anche il relatore della sentenza del 1978, Guido Astuti), ma
necessaria da un lato per non frustrare i cittadini e, dall’altro, per non bloccare il Parlamento, la cui potestà legislativa non può avere limiti, nemmeno nelle more del referendum. Perché allora non darne una dimostrazione, accettando la sfida dei quesiti per rilanciare, regolando con la legge in modo più organico, approfondito e senza calcoli di campagna elettorale, materie così tecniche e delicate? Sarebbe senz’altro un passo avanti dopo tanti anni, per non dire troppi, passati a discutere di riforme che poi non si realizzano.