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Non poteva mancare, nel luogo del “delitto” e, soprattutto, nel giorno del trentennale dell’inchiesta che cambioò la storia del Paese, un convegno per ricordare cosa fu Mani pulite a Milano. Organizzato dalla locale sezione dell'Associazione nazionale magistrati, l’evento si è svolto giovedì presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo o Sergio Cusani, l’imputato eccellente del processo per la maxi tangente Enimont. Fra i relatori, il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia, il professore Giovanni Fiandaca, l'ex componente del Csm e giudice costituzionale Gaetano Silvestri, il presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano Vinicio Nardo. Tre le sessioni trent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: "Poteri e magistratura prima di Mani pulite", "Mani pulite la parola ai testimoni", "Mani pulite un bilancio”. Una premessa: chi si aspettava un serio mea culpa sulle decine di persone che si sono tolte la vita perchè finite nel tritacarne giudiziario o sull’abuso della custodia cautelare da parte di magistrati, sarà rimasto sicuramente deluso. I lavori del convegno non hanno approfondito, come forse sarebbe stato opportuno, tali aspetti. «Prima le indagini non decollavano», hanno esordito ii relatori, cercando di spiegare perché una «banale inchiesta giudiziaria» si sia poi trasformata in un fenomeno epocale. L’antefatto è sempre lo stesso: la svolta milanese nelle indagini per corruzione che segnò un cambio di passo rispetto a quanto accadeva nelle palude romana che metteva su un binario morto tutti i procedimenti nei confronti dei “potenti”. Tesi da prendere con le molle. Le regole del gioco erano diverse. Ad esempio, si potevano riprendere le persone con le manette ai polsi. Ed il nuovo codice di procedura penale, con il grande potere dato ai pubblici ministeri, fece da volano all’inchiesta. Fu con Mani pulite che l’avviso di garanzia divenne un marchio d’infamia. La degenerazione dei partiti agli inizi degli anni Novanta non era una novità. Da tempo «la gente aveva la percezione che qualcosa non stesse funzionando», ha ricordato Benedetta Tobagi. L’inchiesta, è stato sottolineato, venne raccontata da giornalisti giovani, senza esperienza ma volenterosi, che sposarono ciecamente le tesi dei pm, mitizzando così le loro figure, come quella di Antonio Di Pietro, trasformato in un eroe nazionale. Significativa, come nelle attese, la testimonianza di Cusani. «Non voglio minimizzare il danno della pratica tangentizia», ha esordito l’ex manager, ma quello che è successo dopo gli arresti non ha certamente raggiunto lo scopo, dal momento che la corruzione c’è ancora. «Mi hanno cambiato 16 volte i capi d’imputazione in un processo che doveva durare tre giorni ed invece è durato mesi», ha aggiunto Cusani, ricordando la storia di Enimont e le tante “novità”, come la diretta televisiva del processo, martellante, che accompagnava le giornate degli italiani, esponendo al pubblico ludibrio i politici dell’epoca. Significativo il passaggio in cui Cusani ha evidenziato come lo Stato non volesse lasciare la chimica ad un privato: «Era interesse pubblico mantenere il controllo di un grande comparto industriale». Come poi ricordato dall'avvocato Nardo, i processi di Mani pulite furono caratterizzati da «poca pena» e da tantissimi patteggiamenti. Un meccanismo che permetteva agli inquirenti di andare avanti. Oggi è tutto cambiato. Le pene per questi reati sono aumentate in maniera esponenziale e la corruzione è stata equiparata ai reati per mafia. Ad essere sempre uguali le tante storture del processo penale, l'appiattimento dei gip sul pm, il ruolo dell'avvocato difensore che non è più “accompagnatore” dell’indagato davanti ai magistrati, ma fatica comunque a ritagliarsi il suo spazio. Da parte di Santalucia, infine, un accenno alla crisi attuale della magistratura, con livelli oggi di consenso presso l’opinione pubblica ben diversi rispetto a trenta anni fa.