Prima la Corte costituzionale, con la storica sentenza n. 10 del 2024 di quasi un anno fa, che ha riconosciuto il diritto dei detenuti a colloqui senza controllo visivo con il coniuge o convivente, ora interviene anche la Cassazione con una importante pronuncia che rafforza ulteriormente questo diritto fondamentale.

La Prima Sezione Penale della Corte Suprema, con la sentenza numero 8 del 2025, ha infatti annullato l’ordinanza del magistrato di Sorveglianza di Torino che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di un detenuto di effettuare colloqui intimi con la propria moglie. Il magistrato aveva motivato il diniego sostenendo che tale richiesta "non configura un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale". La Cassazione ha invece ribadito che, alla luce della sentenza costituzionale del gennaio 2024, il diritto all'affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, che può essere limitato solo per specifiche ragioni di sicurezza, ordine e disciplina, o per la particolare pericolosità del detenuto. Non può quindi essere negato sulla base di mere difficoltà strutturali dell'istituto penitenziario.

La questione solleva però una problematica di più ampio respiro. Gli istituti penitenziari italiani, notoriamente afflitti dal sovraffollamento, presentano spesso limiti strutturali dove, tuttora, non si vuole porre rimedio attraverso misure come la liberazione speciale anticipata, proposta da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Questo rischia di creare una situazione paradossale in cui la possibilità di godere di un'affettività piena con i propri cari finisce per dipendere dalle condizioni del carcere in cui si è reclusi.

Si profila così una discriminazione tra detenuti: alcuni potrebbero vedersi negata per lungo tempo la possibilità di incontri intimi con i propri cari solo perché assegnati a strutture non adeguatamente attrezzate, mentre altri, più fortunati, potrebbero esercitare questo diritto fondamentale. Diritto, tra l’altro, tuttora negato. Tale disparità non solo viola il principio di uguaglianza, ma rischia di compromettere anche il percorso rieducativo dei detenuti, centrale nella nostra Costituzione.

Se non si interverrà tempestivamente per risolvere questo problema, l'Italia si esporrà inevitabilmente a sanzioni e condanne in sede europea, con conseguenti obblighi risarcitori. La sentenza della Cassazione rappresenta quindi un monito importante: le carenze strutturali non possono giustificare la compressione di diritti fondamentali, e l'amministrazione penitenziaria ha il dovere di adoperarsi per renderne possibile l'esercizio in tutte le strutture. La palla passa ora al Ministero della Giustizia e all'amministrazione penitenziaria, chiamati a trovare soluzioni concrete per garantire al più presto l'effettività di questo diritto in modo uniforme, evitando che le carenze strutturali si traducano in una inaccettabile disparità di trattamento tra detenuti.