Domenica scorsa, al carcere di Prato si è consumato il sessantesimo suicidio dall’inizio dell’anno. «Solo 27 anni, italiano, alcune condanne definitive con fine pena nel 2032, si è impiccato ieri sera nella sua cella della Casa Circondariale di Prato. Subito soccorso e condotto in ospedale, è spirato poco dopo. Si tratta del 60esimo suicidio di un detenuto nel corso dell’anno, cui vanno aggiunti 6 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una carneficina mai vista in precedenza», ha dichiarato Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria. E tutto ciò avviene mentre il sottosegretario alla Giustizia, con delega ai detenuti, Andrea Ostellari, sostiene che le carceri sono regolamentari e non c’è sovraffollamento. Stessa bufala ripresa da Marco Travaglio, direttore de Il Fatto, che reitera la cosa, visto che ha già scritto negli anni passati che il sovraffollamento è virtuale, sostenendo addirittura che esistono ulteriori posti disponibili. Ma in fondo non è una novità, visto che non ne azzecca una. Dal sistema penitenziario fino ai processi sulle stragi di mafia.

Sono 14.500 i detenuti in più rispetto ai posti disponibili e, nel solo 2023, sono stati ben 4.731 i reclusi nei confronti dei quali la magistratura di sorveglianza ha dovuto riconoscere rimedi risarcitori per trattamento inumano e degradante. Altro che sovraffollamento inesistente. Risarcimenti, peraltro, la cui procedura viene attivata solo da chi è nelle condizioni di pagarsi un avvocato. Spieghiamo ancora una volta, il discorso dei parametri indicativi del sovraffollamento. Già nel 2019, Il Fatto denunciò l’inesistenza del sovraffollamento, visto che la capacità ricettiva – a differenza della capienza minima di 3 metri quadri di spazio vitale della Cedu - si baserebbe secondo il nostro parametro che prevede 9 metri quadri per ogni cella singola, cui ne vanno aggiunti 5 per ciascun detenuto in quelle multiple. Quindi l'Italia viene condannata a pesantissimi risarcimenti in base ai nostri parametri dei 9 metri quadri? Falso. Il detenuto viene risarcito in base ai parametri della Cedu, non i nostri. Quindi, una volta appurato questo dato, i fatti ci dicono che il sovraffollamento è un problema enorme visto che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona – e non i nove metri quadrati sulla carta - è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano. Dati confermati dalla stesso Garante nazionale, in linea con quelli dell’ultimo dossier di Antigone: sovraffollamento medio del 130,6% (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili), con 50 istituti che sono di gran lunga al di sopra da San Vittore (224,38 %), Brescia Canton Mombello (209,34%), Foggia (195,65%), fino al cinquantesimo Teramo che è al 151,76.

Per capire meglio, bisogna fare un esempio concreto. Prendiamo la sentenza della Cassazione n. 52819/16 che dà piena applicazione alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dal caso Torregiani e lo fa chiarendo il corretto calcolo dello spazio da destinare ai detenuti per non incorrere in una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Tutto è scaturito da una ordinanza del 2 ottobre 2014 del Tribunale di sorveglianza di Perugia che aveva respinto il reclamo (azione inibitoria e risarcitoria) di un detenuto che contestava le condizioni carcerarie provocate dal sovraffollamento. Per il Tribunale, nel calcolo dello spazio destinato al singolo occupante andava incluso il letto che non limita lo spazio vitale, mentre andavano esclusi dal computo della superficie unicamente altre strutture fisse come manufatti e mensole e lo spazio dedicato al bagno. Il criterio di misurazione deciso dal Tribunale aveva portato a escludere un trattamento disumano e degradante perché lo spazio minimo era tra i 3 e i 4 metri quadrati. In modo singolare, tra l’altro, il Tribunale effettuava una compensazione tra acqua calda (assente) e la doccia esterna con acqua calda. Una posizione bocciata dalla Cassazione che ha escluso ogni possibilità di compensazione e ha chiarito che nello spazio minimo vanno considerate tutte le strutture fisse incluso il letto che, quindi, sottrae lo spazio a disposizione del detenuto.

Per le modalità di calcolo dello spazio minimo vitale concesso a un individuo posto in una cella collettiva, la Cassazione ha richiamato la prassi di Strasburgo. La posizione della Corte europea è chiara: al di sotto dei 3 metri quadrati si verifica in modo automatico una violazione dell’articolo 3 della Convenzione, senza possibilità di «compensazioni derivanti dalla bontà della residua offerta di servizi o di spazi esterni alla cella». Tra l’altro, osserva la Suprema Corte, il letto deve essere considerato come «un ingombro idoneo a restringere» lo spazio vitale minimo all’interno della cella. Ed invero, – scrive la Cassazione – considerare «superficie utile quella occupata dal letto per finalità di riposo o di attività sedentaria che non soddisfano la primaria esigenza di movimento» non è conforme ai criteri delineati dalla Corte europea, con la conseguenza che non può rientrare nella nozione di spazio minimo individuale. Così, andavano detratti dalla superficie complessiva non solo il bagno e gli arredi ma anche lo spazio occupato dal letto. Pertanto, tenendo conto dell’interpretazione della Corte europea in base alla quale il giudice interno «ha l’obbligo di ritenere un dato integrativo del precetto», sussiste una «forte presunzione di trattamento inumano e degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo». Di qui l’annullamento con rinvio per un nuovo calcolo dello spazio minimo.

Di sentenze del genere, ce ne sono tante. Quindi siamo oggetti di pesanti condanne, ma in base alla violazione dei parametri minimi (la soglia di decenza) della Corte europea e non i nostri come Travaglio erroneamente pensa. Il problema è che basterebbe far applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 6 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Purtroppo non viene rispettato nemmeno quello e ci si affida proprio alla soglia minima che il più delle volte si conteggia assieme agli arredi che occupano lo spazio. Basterebbe vedere gli ultimi ricorsi dei detenuti del carcere milanese di San Vittore dove contestano di non avere i tre metri quadri a testa, e ricordiamo ancora una volta che parliamo della soglia minima. Come ha riportato Repubblica, l’azione legale, supportata dagli avvocati della Camera penale di Milano, si concentra su due fronti principali: il problema delle "celle chiuse" e le violazioni dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che proibisce trattamenti inumani e degradanti. L’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano, ha dipinto un quadro desolante della realtà carceraria: «Non stiamo parlando di semplici statistiche. La verità è che i detenuti sono costretti a trascorrere dalle 18 alle 20 ore al giorno in celle anguste, in condizioni che sfidano ogni principio di dignità umana».