L’Italia, pioniera nell'abolizione dei manicomi, fatica ancora a liberarsi della loro eredità: la contenzione fisica prolungata ed eccessiva, la scarsa tutela giuridica nei Trattamenti Sanitari Obbligatori (Tso) e le condizioni igieniche inadeguate persistono nelle strutture psichiatriche.

La recente condanna senza precedenti della Corte Europea nei confronti del nostro Paese per l'abuso di questa pratica evidenzia una problematica connessione con il passato. Una criticità già emersa nel rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt) dello scorso anno, le cui conclusioni rispecchiano le precedenti osservazioni del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, allora guidato da Mauro Palma.

Il Cpt ha diffuso un rapporto sulle verifiche condotte in quattro reparti psichiatrici italiani, evidenziando la loro difficoltà nel distaccarsi dalle logiche manicomiali. L'organo ispettivo effettua controlli quadriennali in tutti i Paesi della Comunità Europea per valutare la conformità agli standard comunitari nei settori di competenza (psichiatria, strutture per anziani, carceri e immigrazione). Dal 2004, le visite del Cpt in Italia si sono invariabilmente concluse con raccomandazioni, sistematicamente disattese, volte a sanare le gravi criticità identificate.

Le ispezioni effettuate in quattro importanti ospedali (Milano Niguarda, Melegnano, Cinisello Balsamo e Roma San Camillo) hanno rivelato uno scenario preoccupante, dominato da procedure che riportano alla mente il modello manicomiale, ormai superato da decenni in gran parte d'Europa. Uno dei punti più critici è risultato essere l'uso eccessivo e prolungato della contenzione fisica. In sostanza, le persone ricoverate vengono immobilizzate contro la loro volontà, spesso per giorni interi.

Questa metodologia, condannata dagli standard internazionali, viene giustificata ricorrendo a una norma giuridica, l'articolo 54 del codice penale, interpretata in modo eccessivamente elastico, a discapito dei diritti dei degenti. Ancora più allarmante è il fatto che venga applicata anche a chi ha acconsentito al ricovero, privandolo così di ogni tutela giuridica.

Le problematiche emerse dall'inchiesta non si limitano alla contenzione fisica. Il ruolo del giudice tutelare, chiamato a garantire i diritti delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio (Tso), appare del tutto formale. Il magistrato si limita a firmare moduli prestampati, senza incontrare l'interessato e senza valutare la situazione nel suo complesso. Questo contrasta nettamente con gli standard europei, che prevedono un confronto diretto tra le parti.

Anche l'informazione ai ricoverati risulta insufficiente. Molti di loro, interpellati dal Cpt, ignoravano i propri diritti e il proprio status giuridico. Un'ulteriore criticità riguarda le condizioni di vita all'interno dei reparti: spazi angusti, scarsa igiene e totale assenza di aree verdi sono elementi ricorrenti nelle descrizioni fornite dagli ispettori.

L'attuale normativa, impropriamente denominata “Legge Basaglia”, ha di fatto trasferito i metodi manicomiali in ambito ospedaliero. Eppure, rimangono tuttora inevase le principali indicazioni che gli organismi internazionali chiedono da tempo di attuare. La Guida ai servizi di salute mentale basati sulla comunità, pubblicata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nel giugno 2021, ha richiesto l'abbandono del modello biomedico-farmacologico, l'eliminazione delle procedure coercitive, l'adozione di un approccio olistico al disagio psicosociale e l'implementazione di buone prassi già sperimentate con successo.

Queste includono il supporto tra pari, la presenza di sostegno territoriale concreto e l'integrazione dei servizi di salute mentale con un supporto sociale ampio, comprensivo di alloggio, istruzione e servizi sociali. Anche le Nazioni Unite, attraverso l'Alto Commissario per i Diritti Umani, hanno sollecitato l'abolizione delle misure coercitive e l'applicazione del Crpd (Convention on the Rights of Persons with Disabilities). Nonostante ciò, persiste l'immobilità della psichiatria istituzionale italiana che sembrerebbe ignorare le direttive della comunità internazionale. Forse la sentenza di condanna della Cedu potrebbe fare da sprone per rendere effettiva la riforma della salute mentale.