La riforma Basaglia del 1978 ha segnato una svolta epocale nel trattamento delle malattie mentali in Italia. Da allora, gli ospedali psichiatrici su tutto il territorio nazionale sono stati chiusi e sono state istituite strutture alternative, ponendo la persona al centro dell'assistenza. Tuttavia, a cento anni dalla nascita di Franco Basaglia (11 marzo 1924), l’uomo che ha fatto abolire i manicomi, il processo di deistituzionalizzazione dell’assistenza psichiatrica non si è ancora concluso pienamente. Basti pensare che le strutture residenziali, definite sulla carta “riabilitative”, dovrebbero ospitare le persone per un periodo di tempo limitato di massimo 18 mesi. Ma non è così.

L'Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha recentemente pubblicato una ricerca che getta luce sullo stato attuale delle strutture residenziali destinate alla cura dei disturbi mentali, evidenziando una serie di criticità che pongono seri interrogativi sull'efficacia e l'umanità delle pratiche attuate. I dati sono chiari: la permanenza media dei pazienti nelle strutture convenzionate varia da circa due anni nel 2015 agli oltre 3 anni nel 2022.

Come ben evidenzia la ricerca dell’Iss, inizialmente concepite come “strutture intermedie” tra la casa e il reparto ospedaliero (cui eventualmente far ricorso per condizioni di crisi non gestibili a domicilio), le strutture residenziali hanno assunto nel corso degli anni un ruolo centrale nel sistema di cura per la salute mentale. In molti casi esse hanno costituito un contesto terapeutico integrato ove le persone con problemi di salute mentale hanno sperimentato – nella relazione con l’équipe multidisciplinare – sicurezza, possibilità di affidamento e di contenimento emotivo, motivazione alla ripresa e al rientro nel proprio ambiente di vita. In altri, le strutture residenziali si sono rivelate luoghi di segregazione e chiusura all’esterno, senza collegamento con i percorsi territoriali, in cui l’indeterminatezza dello stare è governata dai tempi massimi di permanenza stabiliti per legge (spesso inosservati o elusi), giustificando ipotesi di neo- istituzionalizzazione.

Queste criticità, già evidenziate dalla Commissione di Inchiesta sul sistema sanitario nazionale nel 2013, e a circa 10 anni dall’approvazione del Documento Tecnico della Conferenza delle Regioni, non sono state superate, anche per la diversa declinazione che la classificazione proposta ha ricevuto nelle normative regionali e la conseguente, forte eterogeneità dei pazienti trattati, ai parametri per il personale, alla durata della degenza nelle strutture.

IL RISCHIO DEL RITORNO AI MINI OPG

L’abolizione dei manicomi è stata un passo fondamentale, ma era rimasto scoperto ancora il buco nero degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), aboliti ufficialmente con la legge 81 del 2014 e definitivamente chiusi a febbraio del 2017. La legge stessa ha istituito le Residenze per l'esecuzione di misure di sicurezza (Rems), ma non come sostituti, non come mini opg, ma per un utilizzo del tutto diverso. Caratterizzate da una esclusiva gestione sanitaria al loro interno, tali misure rispondono anche a un’esigenza di contenimento della pericolosità sociale dei soggetti che vi vengono destinati - affetti da vizio totale o parziale di mente, che li rende non penalmente responsabili in quanto soggetti non imputabili rappresentando dunque una nuova misura di sicurezza.

Dai punti fermi della legge 81/ 2014 sul piano dell’organizzazione delle Rems, già contenuti nel Decreto Ministeriale del ministro della Salute del 1° ottobre 2012, si evince, da parte del decisore una volontà di attenuare gli aspetti custodiali delle misure di sicurezza e tracciare una discontinuità tra vecchi Opg e nuove Rems. Sulla carta, si prevede infatti la gestione sanitaria delle Rems, affidate esclusivamente alla sanità pubblica

regionale, senza alcun potere decisionale o organizzativo del ministero della Giustizia; le ridotte dimensioni per evitare l’ “effetto- manicomio”: la capienza massima di ogni Rems non deve superare i 20 posti. Una dimensione assimilabile a quella delle comunità terapeutiche, ma superiore a quella dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura ( Spdc) ospedalieri; la capillare diffusione sul territorio, per implementare il principio della “territorialità” della sanzione penale e favorire i contatti con il territorio esterno; l’assimilazione agli standard ospedalieri per quanto riguarda le attrezzature necessarie allo svolgimento delle attività sanitarie e quelle necessarie a garantire la sicurezza del paziente e della struttura, nonché le dotazioni minime di personale sanitario e infermieristico per il funzionamento della struttura; l’obbligo, per le Regioni, di adottare un piano di formazione del personale delle strutture sanitarie residenziali volto ad acquisire e a mantenere competenze cliniche, medico legali e giuridiche (con particolare attenzione ai rapporti con la Magistratura di sorveglianza), specifiche per la gestione dei soggetti affetti da disturbo mentale autori di reato.

LA MANCATA DE-ISTITUZIONALIZZAZIONE

Inoltre, la sola attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna non costituisce competenza del Servizio sanitario nazionale né dell’Amministrazione penitenziaria, bensì è affidata alle Regioni e le Province autonome, attraverso specifici accordi con le Prefetture, che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture, al fine di garantire adeguati standard di sicurezza. Al tema sicurezza si ricollega anche l’assenza di personale di polizia penitenziaria all’interno della struttura, presente invece nei “vecchi” Opg. Ognuna di queste previsioni rafforza l’idea che quello dell’istituzione delle Rems sia stato – almeno sulla carta – un percorso di de- istituzionalizzazione. Ciò non significa, che, sul piano micro della singola Rems, si possano riprodurre in taluni casi quelle dinamiche tipiche dell’istituzione totale, che portano a una violenta compressione delle principali sfere di vita dell’uomo, lo spazio, il tempo, le relazioni.

Eppure, rischia di non essere così. Il problema principale che colpisce tali strutture è costituito dal fatto che, pur essendo l’invio in Rems, previsto solo come extrema ratio, le liste di attesa per l’inserimento sono molto lunghe, determinando un difetto di effettività nella tutela dei diritti fondamentali dei destinatari della misura. Non a caso ci sono decine e decine di persone “internate” illegalmente nelle carceri, in attesa di essere accolte nelle Rems. I dati parlano più chiaro.

Oltre alle persone già accolte nelle Rems, vi sono altre 675 persone in lista d'attesa e 42 persone illegalmente recluse in 25 carceri senza un titolo detentivo. Inoltre, si sono verificate segnalazioni di difficoltà negli istituti penitenziari riguardo alle persone con problemi comportamentali significativi e disturbi psichici evidenti, che non vengono adeguatamente gestiti nelle cosiddette “Articolazioni per la tutela della salute mentale” presenti in alcuni di questi istituti. Questo insieme di situazioni soggettive, ingiustificate da una base medica o giuridica, ma talvolta nostalgicamente rimpiante da alcuni, cristallizza ancora una volta la mancata attuazione della riforma Basaglia e la legge che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari.