Dall’altro lato, nelle ricostruzioni rese ieri ai magistrati, Luiciano Violante ha restituito una lettura chiara degli stessi fatti, in gran parte analoga a quella inutilmente proposta dalle difesa nel filone più importante. «A me è sembrato che la trattativa ci sia stata, ma che fosse più una negoziazione di polizia», ha detto l’allora presidente della commissione Antimafia davanti alla Corte presieduta da Adriana Piras. «In una fase in cui non c’erano pentiti né gli strumenti tecnologici attuali, accadeva spesso che le forze di polizia avessero relazioni con soggetti mafiosi per raccogliere informazioni. Ma», ha detto Violante, «non ho mai avuto sentore di una trattativa a livello politico».

Ma una trattativa condotta da ufficiali dei carabinieri con rappresentanti più o meno diretti della mafia, in che modo diventa reato? Come può essere ricondotta alla fattispecie della “minaccia a corpo politico dello Stato”? Violante ricorda alcuni dati di fatto: «Mancino, Martelli, Scotti e Scalfaro erano decisi contro la mafia non solo a parole, ma anche con i fatti. In ogni caso i boss sono stati arrestati e i loro beni confiscati: se ci fosse stata una trattativa, Cosa nostra si troverebbe in perdita». Si sarebbe trattato di un “traffico” di informazioni fra uomini delle forze dell’ordine e i criminali: prima si parla n cerca di elementi utili a prevenire altre stragi, poi al momento di colpire duro lo Stato procede senza fare sconti. Eppure, sulla base di questi che sembrano i soli fatti accertabili, venerdì scorso sono state inflitte condanne dagli 8 ai 12 anni di carcere ai carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni e all’ex senatore Marcello Dell’Utri. Violante è entrato anche nel merito di un fatto che a gennaio il pm Nino Di Matteo, durante la requisitoria, ha richiamato per accusare l’ex presidente dell’Antimafia di aver palato in ritardo: l’incontro in cui il generale Mori gli rappresentò la richiesta di essere audito dalla commissione bicamerale avanzata da Vito Ciancimino. Su sollecitazione della presidente della Corte d’appello e dei due magistrati che rappresentano l’accusa nel processo contro Mannino, i sostituti procuratori generali Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, Violante ha spiegato che «quando Mori venne a riferirmi della richiesta di Ciancimino io ascoltai e basta: avevo capito infatti che il discorso che riferiva Mori relativamente all’ex sindaco di Palermo era impostato sul concetto ‘ io ti dico qualcosa e tu mi dai qualcosa in cambio... ’». Ha quindi aggiunto che l’intento della commissione era di «ascoltare Ciancimino: ne parlai con l’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, il quale mi disse che avrebbero voluto prima ascoltarlo loro». Di fatto Violante ha ribadito con l’episodio specifico la sua valutazione complessiva: era in corso una trattativa fra carabinieri e uomini riconducibili a Cosa nostra, ma al solo scopo di ottenere informazioni e senza che da quegli incontri si arrivasse alle “minacce” nei confronti del governo. In questa chiave, secondo l’allora presidente dell’Antimafia, va letto anche il tentativo compiuto da Mori presso lo stesso Violante di soddisfare la richiesta presentatagli da Ciancimino.

I PENALISTI: «VANGELO SECONDO DI MATTEO»

Fin quanto è sostenibile la doppia verità sullo Stato- mafia? Come può stare in piedi il paradosso di condanne durissime che smentiscono diverse precedenti pronunce, non solo quella di primo grado su Mannino ma anche la sentenza “Mori- Obinu”? Anche per chiarire questo si dovranno attendere le motivazioni del Tribunale di Palermo. Ma certo si rafforza la perplessità sul ricorso alla Corte d’assise in giudizi così complessi. Ne parla anche un documento diffuso ieri dalla Camera penale di Milano, in cui si torna con sarcasmo sul «Vangelo secondo Di Matteo», ossia sulla «elegia di se stesso e del pool» proposta dal pm subito dopo la lettura del dispositivo. «Si è esibito sostanzialmente a reti unificate, non solo magnificando l’operato della Procura di Palermo ma – e qui sta il peggio – adombrando ulteriori responsabilità riferibili tanto ad apparati dello Stato quanto a settori della politica usciti, per loro mera fortuna, indenni dalle investigazioni o – meglio – causa la mancanza di un collaboratore di giustizia con quella appartenenza». Secondo i penalisti milanesi «il furore intellettuale che ha accompagnato la requisitoria postuma si allinea su una corrente di pensiero che è già stata mirabilmente illustrata da Piercamillo Davigo: non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca». Si tratta di qualcosa «che fa venire i brividi. Eppure», prosegue la nota, «alti si sono levati gli applausi all’ascolto del Vangelo secondo Di Matteo a un evento organizzato dalla Associazione Gianroberto Casaleggio, ed il successo della pagina Facebook “Io sto con Di Matteo” la dice lunga sulla inopportunità di introdurre nel nostro sistema il processo con giuria». Che è forse il punto critico in grado di spiegare perché, sulla presunta trattativa, le due verità processuali continuino a farsi strada in parallelo, l’una indifferente all’altra.