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MINISTERO GRAZIA E GIUSTIZIA
In un momento storico in cui il sistema penitenziario italiano sembra orientarsi sempre più verso un approccio panpenalista nella gestione delle criticità carcerarie, emerge almeno un segnale in controtendenza. Il Ministero della Giustizia ha infatti presentato una bozza di decreto ministeriale che introduce, per la prima volta nella storia della Polizia Penitenziaria, la figura del “negoziatore”. Una novità che, se non risolve i problemi strutturali del sistema, almeno introduce uno strumento di mediazione finora mancante nel nostro ordinamento penitenziario. Il documento, attualmente in fase di consultazione con le organizzazioni sindacali, delinea un ruolo cruciale destinato a trasformare l’approccio alla gestione degli eventi critici nelle carceri italiane. La proposta nasce da un’esigenza concreta e sempre più pressante: la necessità di gestire in modo efficace e non conflittuale quelle situazioni particolarmente complesse che possono turbare gravemente l’ordine e la sicurezza degli istituti penitenziari. Il decreto, attualmente in fase di consultazione con le organizzazioni sindacali, delinea un quadro normativo dettagliato per questa nuova specializzazione, definendone compiti, requisiti e percorsi formativi.
CHI È E COSA FA
Ma chi è e cosa fa esattamente un negoziatore penitenziario? Il decreto lo descrive come una figura altamente specializzata, il cui compito principale è quello di intervenire nelle situazioni più delicate che possono verificarsi all’interno delle carceri. Il suo ruolo non si limita alla mera gestione della crisi, ma si estende a un approccio più ampio e sofisticato: deve saper favorire la de- escalation emotiva dei soggetti coinvolti, contenere le minacce, guadagnare tempo prezioso e, soprattutto, creare le condizioni per una risoluzione pacifica delle situazioni più critiche.
L’aspetto più innovativo del decreto è la creazione di due livelli di specializzazione. Il negoziatore di primo livello è l’operatore sul campo, colui che interviene direttamente nelle situazioni di crisi. Ma c’è anche un negoziatore di secondo livello, una figura più esperta e qualificata che non solo fornisce supporto costante ai colleghi di primo livello, ma assume anche il ruolo di istruttore e formatore. Questo secondo livello rappresenta il vertice della specializzazione, interviene personalmente solo nei casi di eccezionale gravità e contribuisce attivamente al miglioramento continuo delle procedure operative. La struttura organizzativa prevista dal decreto è altrettanto accurata. I negoziatori saranno incardinati in tre strutture principali del Corpo: il Gruppo Operativo Mobile, il Nucleo Investigativo Centrale e il Gruppo di Intervento Operativo. Questa scelta non è casuale, ma risponde all’esigenza di integrare la nuova figura all’interno delle unità già esistenti e più preparate alla gestione delle situazioni critiche. Il percorso da fare
IL PERCORSO PER DIVENTARE NEGOZIATORE NON SARÀ CERTAMENTE FACILE
Il decreto stabilisce requisiti rigorosi: potranno accedere solo gli appartenenti ai ruoli degli ispettori e dei sovrintendenti con almeno cinque anni di servizio alle spalle e un curriculum impeccabile. Non basterà l’anzianità: serviranno valutazioni di “ottimo” negli ultimi tre anni e l’assenza di procedimenti penali o disciplinari. Ma è sulla formazione che il decreto pone particolare enfasi: tre settimane di corso specialistico, esame finale e un anno di prova. Chi supera questo percorso dovrà poi impegnarsi a rimanere nel ruolo per almeno quattro anni, garantendo così continuità e stabilità al servizio. Ancora più selettivo il percorso per diventare negoziatore di secondo livello: serviranno almeno due anni di esperienza come negoziatore di primo livello e il superamento di ulteriori prove selettive, seguito da un corso specifico di una settimana. Un percorso di eccellenza per formare figure di alto profilo professionale. «Concettualmente non è un’idea sbagliata», commenta Gennarino De Fazio, segretario della UIL Polizia Penitenziaria, interpellato sulla novità. «Il negoziatore è una figura già presente nelle altre forze di polizia, fondamentale per stemperare situazioni di tensione. È uno strumento utile che permette di gestire le crisi senza dover ricorrere a modalità repressive».
Le parole di De Fazio sottolineano come questa innovazione possa rappresentare un importante passo avanti nella modernizzazione del sistema penitenziario italiano. Il decreto non si limita a introdurre i negoziatori specializzati, ma prevede anche la formazione di “operatori di supporto alla negoziazione” nei reparti territoriali. Questi agenti, pur mantenendo le loro normali funzioni, saranno addestrati per gestire eventi critici di minore entità e fornire supporto immediato ai negoziatori specializzati quando necessario. Una rete capillare di professionalità che potrà fare la differenza nella gestione quotidiana delle criticità. Un aspetto fondamentale del decreto riguarda la distinzione tra l’attività di negoziazione e la responsabilità decisionale. Il negoziatore, pur avendo un ruolo cruciale nella gestione della crisi, non ha il potere di prendere decisioni strategiche che vadano oltre la mera operatività tecnica. Queste restano di competenza dell’autorità responsabile, creando così un sistema di checks and balances che garantisce un processo decisionale ponderato e responsabile. Il decreto prevede anche l’elaborazione di specifici protocolli operativi che definiranno nel dettaglio le procedure di intervento e l’organizzazione delle strutture di negoziazione. Un aspetto questo non secondario, che permetterà di standardizzare le procedure e garantire un’uniformità di intervento su tutto il territorio nazionale. Le organizzazioni sindacali hanno avuto tempo fino a ieri per presentare le loro osservazioni sulla bozza. Solo dopo questa fase di consultazione, e dopo aver recepito eventuali suggerimenti e modifiche, il decreto potrà entrare in vigore.
RIMANE IL PARADOSSO DEL REATO DI RIVOLTA
L’introduzione del negoziatore nelle carceri, pur non risolvendo i problemi strutturali del sistema penitenziario italiano, segna un cambio di approccio verso il dialogo piuttosto che la repressione. Questa novità si scontra però con l’introduzione del reato di rivolta, anche “passiva”, nel decreto sicurezza. Ed è interessante riprendere l’analisi Gennarino De Fazio, segretario della UIL Polizia Penitenziaria, dove solleva un’obiezione tanto sottile quanto dirompente sul nuovo reato di rivolta carceraria introdotto dal decreto sicurezza. La sua analisi, nata su invito delle camere penali, parte da un problema apparentemente tecnico per giungere a una conclusione che mette in discussione l’intero sistema penitenziario italiano. Il decreto non definisce cosa costituisca una “rivolta”, un termine assente nel nostro ordinamento penale. Consultando i dizionari, emerge che la rivolta è una “ribellione collettiva contro l’ordine costituito”. Ma qui sta il paradosso: come si può violare un ordine che, di fatto, non esiste? Le carceri italiane, infatti, operano spesso nell’illegalità, violando diritti fondamentali e non assolvendo alla funzione rieducativa prevista dalla Costituzione. In questo contesto, sostiene De Fazio, il reato di rivolta diventa tecnicamente “impossibile”: non ci si può ribellare contro regole che per prime non vengono rispettate da chi dovrebbe garantirle. De Fazio si spinge quindi fino a mettere in dubbio la legittimità stessa del sistema carcerario attuale, suggerendo che in queste condizioni potrebbe persino essere discutibile la base giuridica che ne giustifica l’esistenza. È un’analisi che va ben oltre la critica tecnica a una singola norma. Mette in luce una contraddizione sistemica: come può lo Stato punire la violazione dell’ordine in strutture dove è lo Stato stesso a non rispettare l’ordine che dovrebbe garantire? È una domanda che interroga non solo i giuristi, ma l’intera società civile sul senso e sulla legittimità del nostro sistema penitenziario.