Mentre l’Italia naviga in acque tempestose, tra carceri trasformate in polveriere e un drammatico aumento dei suicidi, la Scozia imbocca una rotta alternativa. Oltremanica, il governo scozzese ha deciso di puntare su coraggio e pragmatismo per risolvere una crisi che nel Belpaese sembra ormai cronica: il sovraffollamento carcerario.

Se da noi le celle strapiene – con oltre 10mila detenuti in più rispetto alla capienza ufficiale – alimentano un circolo vizioso di illegalità e degrado, Edimburgo risponde con un piano rivoluzionario: il rilascio anticipato di 390 detenuti. Non un gesto dettato dalla resa, ma una strategia calibrata che potrebbe scrivere un nuovo capitolo nella storia della giustizia penale europea.

Annunciato a settembre dalla ministra della Giustizia Angela Constance, il provvedimento riduce dal 50% al 40% la percentuale di pena da scontare per reati minori (condanne inferiori ai 4 anni). Attenzione però: nessuno sconto per chi si è macchiato di violenza domestica o reati sessuali. «Questa non è clemenza, ma responsabilità», ha chiarito la ministra Constance durante la conferenza stampa. «Vogliamo alleggerire le prigioni per concentrarci sulla riabilitazione e sulla sicurezza reale». Un calcolo preciso: -5% di popolazione carceraria, per riportare il sistema sotto la soglia critica di 8.007 posti, oggi superata con 8.300 detenuti.

Il paradosso è stridente. La Scozia, con il suo “solo” 300 detenuti oltre la capienza, agisce tempestivamente. L’Italia, sommersa da un surplus di 10mila unità, resta paralizzata. Eppure i dati parlano chiaro: secondo il Consiglio d’Europa, il nostro tasso di suicidi carcerari (7,6 ogni 10mila detenuti) triplica quello scozzese. Segnale di un sistema al collasso, dove il diritto alla rieducazione – sancito dall’articolo 27 della Costituzione – rischia di diventare carta straccia.

Niente liberazioni selvagge. Il governo ha strutturato l’operazione in tre ondate precise: 18-20 febbraio: primo gruppo in libertà; 4-6 marzo: seconda fase operativa; 18-20 marzo: chiusura del piano. Un calendario serrato che permette alle autorità di monitorare ogni caso e garantire supporto post-carcere: alloggi temporanei, assistenza psicologica e corsi professionali. Quella scozzese non è una semplice misura emergenziale, ma un cambio di paradigma. Ridurre la popolazione carceraria significa restituire ossigeno a un sistema sofferente: più risorse per programmi di rieducazione, agenti meno stressati, celle che non siano incubatrici di radicalizzazione. E soprattutto, una sfida culturale: dimostrare che la sicurezza non si misura in anni di galera, ma nella capacità di reinserire.

E in Italia che cosa si fa? In Italia, la situazione è decisamente più grave, ma nessuna iniziativa governativa all’orizzonte. Secondo Irma Conti, del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, nel nostro Paese ci sono circa 19mila detenuti con pene residue fino a tre anni, che, secondo la normativa, potrebbero uscire dal carcere optando per misure alternative. Tuttavia, «la burocrazia e la carenza di risorse creano ostacoli», ha sottolineato con forza la Garante.

Ricordiamo che, dall’inizio del nuovo anno, si sono già registrati 12 suicidi nelle carceri italiane. L’ultimo episodio è avvenuto lunedì scorso al carcere di Pescara, dove un giovane detenuto egiziano di 24 anni, tossicodipendente, si è tolto la vita impiccandosi. Da quell’evento sono scoppiati tumulti: alcuni detenuti sono riusciti ad arrivare sul tetto, mentre altri hanno dato fuoco ai materassi.

Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista Voci di dentro, che raccoglie contributi da tutte le carceri d’Italia e che si è recato sul posto, ha riferito all’Adnkronos: «C’è la polizia e un forte clima di tensione. Si assiste al viavai di ambulanze che portano in ospedale i detenuti intossicati. Tutto ciò è frutto di anni di mala gestione da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Qui dovrebbero esserci 240 detenuti, ma in realtà ce ne sono 440, il doppio. In alcune celle convivono fino a sei persone, prive persino di brande, con i materassi posizionati a terra. Una situazione che era già al limite».

La settimana precedente si erano verificati due suicidi nel giro di poche ore. Il primo venerdì pomeriggio a Prato, dove un detenuto d’origine nordafricana, poco più che ventenne, ha perso la vita inalando il gas della bomboletta da campeggio utilizzata per la preparazione dei cibi. Il secondo è accaduto sabato all’alba presso la casa circondariale di Sollicciano, dove un recluso rumeno di 39 anni si è impiccato nel bagno della sua cella. Giuseppe Fanfani, garante per la Regione Toscana dei detenuti, ha commentato la situazione al termine del secondo suicidio nel carcere fiorentino di Sollicciano: «Ormai le parole non bastano più. Non basta indignarsi, esprimere cordoglio o organizzare visite per toccare con mano la drammatica situazione di carceri fatiscenti, dove tutto sembra possibile tranne la riabilitazione e una vita dignitosa. Se questo stillicidio di tragedie non viene interrotto, saremo tutti complici».

Sulla stessa struttura, Fanfani ha dichiarato con fermezza: «Deve essere abbattuta e dismessa. Non risponde ad alcuno dei requisiti e delle finalità previste dalla Costituzione», aggiungendo che l’istituto di Prato si trova «sostanzialmente nelle stesse condizioni di Sollicciano». Concludendo, il garante ha affermato: «Non ci si suicida per caso. Si sceglie di morire a trenta anni quando si è sopraffatti dalla disperazione, dalla mancanza di speranza o anche solo da una parola di conforto. In carcere manca tutto, ma soprattutto manca una prospettiva di riabilitazione e reinserimento. Nessuno, in tutti questi anni, ha compreso o avuto il coraggio di affrontare questo impegno, e la politica in genere ha dimostrato di non essere né disponibile né preparata. Questo sistema detentivo genera solo disperazione e morte».

Mentre la Scozia dimostra come interventi tempestivi e innovativi possano trasformare il sistema penitenziario, offrendo una via d’uscita al sovraffollamento e promuovendo la riabilitazione, in Italia permangono criticità che mettono a rischio la vita e la dignità dei detenuti. La contrapposizione tra i due scenari evidenzia l’urgenza di riforme strutturali e una maggiore attenzione alle esigenze umane, affinché anche il nostro sistema possa evolversi in un modello sostenibile e soprattutto non anticostituzionale. Mentre da noi si discute addirittura di inasprire la detenzione, la Scozia scrive un manuale di buone pratiche. Con un messaggio chiaro: la giustizia che protegge davvero non si accontenta di punire. Deve osare, reinventarsi, guardare oltre le sbarre.