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«Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente...». Le parole di Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona, suonano come un monito e, insieme, un’autocritica lucida. La sua lettera, letta ad alta voce da un’amica di Donatella, ha rotto il silenzio della chiesa di Castel d’Azzano, dove lunedì è stato celebrato il funerale della 27enne, morta suicida in carcere lo scorso 2 agosto. Il suo nome è uno dei tanti sulla triste lista che, ormai, viene aggiornata ogni giorno. Nomi che non fanno notizia, generalmente. Ma la storia di Donatella, sintetizzata da una straziante lettera d’addio indirizzata al fidanzato Leo, ha squarciato il velo, mettendo a nudo le storture di un sistema che la politica tende a ignorare, salvo invocare regole più rigide, più dure. Regole che vogliono i detenuti solo come numeri e non come persone, con storie e fragilità. Un sistema non piace nemmeno a chi ci vive dentro per mestiere. «So che avrei potuto fare di più per lei - ha scritto il magistrato che l’ha seguita negli ultimi sei anni -, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più». Semeraro, in Veneto dal 2009, ha conosciuto Donatella nel 2016, quando la giovane ha iniziato ad entrare ed uscire dal carcere per via dei suoi problemi di tossicodipendenza. Una storia personale molto difficile, la sua, «per ragioni privatissime», spiega al Dubbio il magistrato, che non riesce ad accettare che questa storia sia finita così. «Facendo questo tipo di lavoro si hanno ovviamente contatti con i detenuti, contatti che devono essere molto frequenti: per mestiere io devo godere della fiducia dei detenuti e devo avere fiducia in loro, dovendo decidere se concedere benefici o misure alternative. Ed è quasi inevitabile che a qualche detenuto ci si affezioni di più», racconta. Negli ultimi 13 anni Semeraro ha sempre avuto a che fare con detenute donne, prima nel carcere di Venezia e ora a Verona. «Quello di Donatella era un caso che avevo preso particolarmente a cuore, perché nell’arco di sei anni l’ho vista finire in carcere più volte. Aveva un carattere particolare: era fragile come un cristallo di Boemia e al tempo stesso aveva paura di mostrare agli altri questa sua fragilità. Per questo si era costruita intorno una corazza e il suo carattere, al primo approccio, poteva risultare particolarmente difficile - racconta -. Io ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie, forse anche di più, per riuscire a conquistare la sua fiducia e ad avere fiducia in lei. All’inizio dell’anno l’ho inviata in comunità, un esperimento che, purtroppo, è finito male, perché forse lì non ha trovato l’ambiente adatto per lei». Da quella comunità, infatti, Donatella è scappata, motivo per cui è finita di nuovo in carcere, dove si è tolta la vita. «Credo davvero a ciò che ho scritto in quella lettera - aggiunge Semeraro -: quando si muore così vuol dire che il sistema dell’esecuzione penale, così come è concepito in Italia, ha fallito. E tra i primi soggetti che hanno fallito io metto me stesso». Ma cosa poteva fare di più un singolo magistrato? «Non lo so. So che avrei potuto. Magari parlandoci 10 minuti in più, magari dicendole due parole di conforto in più o tenendola mezz’ora di più a colloquio quando veniva da me. Non lo so, credo che avrei potuto fare mille cose. Ed è vero, è il sistema che ha fallito, io però sono un ingranaggio del sistema», aggiunge. In Italia, però, c’è una certa difficoltà a guardare l’esecuzione della pena in un’ottica costituzionalmente orientata. E così il carcere diventa un non-luogo, un posto in cui i diritti, spesso, vengono sospesi e il fine rieducativo della pena messo in soffitta. E se ciò è vero normalmente, quando a finire in carcere è una donna i problemi raddoppiano. «Il carcere come istituzione è pensato per gli uomini - sottolinea Semeraro -, perché è un’istituzione che ha come scopo primario quello di contenere la violenza e l’aggressività, che sono caratteristiche tipicamente maschili. Un carcere che dia modo alla emozionalità, caratteristica tipicamente femminile, di esprimersi, in Italia non c’è. Trattare la detenuta come se fosse un detenuto è un errore marchiano. Poi i risultati sono questi». Ma più in generale, a non convincere il magistrato è la filosofia del “chiuderli dentro e buttare la chiave”. «Tutto ciò è sicuramente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, che non parla di pena, ma di pene. È chiaro che il legislatore del 1948 non poteva pensare alle misure alternative alla detenzione, forse erano troppo in là da venire - aggiunge -, però già da allora non si pensava alla reclusione o all’arresto come unica forma di esecuzione della pena. E questo è molto importante. Ora, al di là del fine costituzionale della pena, fingiamo che le misure alternative non esistano e che la pena vada scontata interamente in carcere. Chi paga? Noi tutti, con le tasse. Ma se il condannato, anziché stare in carcere, sta in misura detentiva, ai domiciliari o meglio ancora in affidamento in prova al servizio sociale e lavora, guadagna e paga le tasse, c’è una ricaduta migliore per la società tutta. Basterebbe riflettere su questo, al di là dell’adesione ai principi della rieducazione, che sono fondamentali». Principi più volte ribaditi dalla Corte costituzionale, che non più tardi di due o tre anni fa, ha riconosciuto che la pena ha una natura polifunzionale. «C’è l’aspetto preventivo, quello retributivo - aggiunge -, ma quello rieducativo non può mai mancare e deve essere prevalente su tutti gli altri». Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: la piaga della tossicodipendenza in carcere, problema che la politica aveva iniziato ad affrontare con gli istituti a custodia attenuata per i tossicodipendenti, salvo poi far finire tutto in un nulla di fatto. «La questione è stata ripresa in mano con i tavoli della riforma penitenziaria, che però hanno sortito poco, perché il governo gialloverde ha fermato le riforme prospettate - spiega Semeraro -. Pochissimo di ciò che era previsto è stato tradotto in legge. E non dobbiamo nasconderci: la droga in carcere purtroppo circola, soprattutto grazie ai detenuti che - più o meno direttamente - sono legati alle organizzazioni criminali e che si avvalgono dei più deboli per lo spaccio». Di fronte a questi problemi si invocano, in genere, pene più severe. Ma tutto questo «non servirebbe a nulla», spiega il magistrato. «Andrebbero colpite le organizzazioni criminali - conclude -, soprattutto con le confische, che consentono di disarticolare l’organizzazione. Ma se dopo la confisca i beni e i patrimoni rimangono sotto sequestro senza essere utilizzati con uno scopo sociale, chi vince non è lo Stato, ma l’organizzazione criminale».