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«Papà, ti giuro, io ti riscatterò. Tua figlia Armida, la tua Penny, la tua figlia selvaggia, contagiata dal tuo amore, una Miserere, sarà all’altezza del tuo cognome. Farà vedere a tutti quelli che in noi non hanno creduto, chi siamo». Armida Miserere ha scritto queste parole sul suo diario il giorno della morte del padre, ufficiale della Marina nel 1989, quando lei aveva 33 anni e da cinque lavorava come direttrice in carcere. Armida entra per la prima volta in un carcere a 28 anni, nel 1984, anni in cui essere vicedirettore donna voleva dire essere disprezzate dai detenuti e dalla Polizia penitenziaria che non ammetteva di essere comandata da una donna e affrontare l’atteggiamento paternalistico del direttore, rassegnato ad avere una collaboratrice a cui bisogna trovare un’occupazione adatta. Una storia, la sua, che viene narrata nel film Come il vento e a incarnare il personaggio è l’attrice Valeria Golino. Miserere diventa direttrice delle carceri più difficili da gestire: San Vittore, Pianosa, l’Ucciardone ( dove erano reclusi i Graviano) e infine Sulmona. Per la sua concezione intransigente del carcere si era fatta una fama da dura, tanto da essere soprannominata ' la femmina bestia' ( all’Ucciardone), o ' il colonnello'. In un’intervista rilasciata al settimanale Io donna nel novembre 1997 aveva chiarito le sue idee circa il ruolo del carcere, che deve sì recuperare il detenuto restituendolo poi ' cambiato' alla società, ma deve comunque ' essere un carcere e non un grand hotel'.
Nella stessa intervista, attirandosi molte critiche, aveva definito ' boiate' i trattamenti risocializzanti, anche se in anni successivi aveva attenuato questo giudizio negativo, tanto da aver sostenuto percorsi di rieducazione come alcune edizioni di ' IngressoLibero', in collaborazione con l’Associazione Sulmonacinema, e corsi scolastici da effettuare in carcere anche per i detenuti di alta sicurezza. Lei, però, divenne così dura e intransigente per via di una tragedia. Aveva un compagno che amava, un educatore carcerario del carcere milanese di Opera e si chiamava Umberto Mormile. Uno che credeva nella rieducazione dei detenuti e portava fino in fondo la sua missione. Poi la tragedia. Nel 1990 venne assassinato in un agguato della ‘ ndrangheta nell’hinterland milanese. La motivazione? Mormile non avrebbe aiutato il boss Domenico Papalia a ottenere nessuno dei benefici richiesti. Per Armida Miserere fu una tragedia che la segnò per sempre. L’eliminazione del suo compagno rappresentò la fine del sogno di costruirsi una vita affettiva e familiare. Nessun altro legame riuscirà ad abbozzare un futuro di egual tenore. Sempre dall’intervista del settimanale “Io donna”, lei raccontò: “Mi sento più sola oggi, qui a Sulmona, in mezzo a queste montagne dove il vento soffia sempre, l’aria è gelida e i detenuti sanno solo lamentarsi e scrivere alle Procure. La mia unica compagnia sono i miei cani, Leon e Luna. Io mi identifico spesso con gli uomini; quando cammino, dicono, incuto timore, fumo super senza filtro, metto la mimetica militare”. E nel 2003, proprio nel carcere duro di Sulmona che dirigeva, si puntò la pistola nella tempia e si ammazzò.