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«Sì, tutto quello che c’è nelle sentenze è vero. Quei quattro omicidi sono mia responsabilità. È stata una guerra giusta, ma ora chiedo scusa alle vittime». Ci ha messo 37 anni Cesare Battisti per ammettere le proprie responsabilità. E ha deciso di farlo davanti al pm che si occupa dell’indagine sulla sua latitanza, Alberto Nobili, convocato sabato assieme alla dirigente dell'Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, nel carcere di Oristano, su richiesta dell’avvocato Davide Steccanella. Un percorso «sofferto», un confronto «rispettoso», durato nove ore, durante le quali ha ammesso tutto, in una sorta di «rito liberatorio» : i quattro omicidi - due commessi materialmente, due come mandante - le rapine e le gambizzazioni. Gesti compiuti in nome di una guerra «che allora ritenevo giusta», ha dichiarato Battisti. L’ex leader dei Pac, arrestato lo scorso gennaio a Santa Cruz, in Bolivia, già condannato in via definitiva all'ergastolo, ha letto le sentenze che lo riguardavano confermando parola per parola. «È stata una cosa complessa», spiega al Dubbio il suo legale. Che parla di un «percorso di rivalutazione che era partito già 40 anni fa, quando è scappato dall’Italia».
Si dice una persona diversa l’ex Proletario armato per il comunismo. A 20 anni credeva in quella «guerra civile e nell’insurrezione armata contro lo Stato» che ha stroncato «il movimento culturale, politico e sociale che è nato nel ’ 68». Gli anni di piombo, ha spiegato, «hanno sepolto la spinta culturale che era nata. Abbiamo stroncato il movimento che avrebbe potuto portare l’Italia a livelli di progresso». Ammissioni che oggi fa perché troppi, in questi anni, hanno parlato al posto suo. «Era arrivato il momento di dire personalmente chi era e cosa aveva fatto», spiega Steccanella.
Sabato e domenica, di fronte a Nobili e Villa, ha raccontato di aver agito «convinto, come altri, di fare una cosa giusta e della quale ora comprende il peso e le conseguenze». Così ha ammesso le proprie responsabilità nella morte del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del macellaio mestrino Lino Sabbadin, e in quella dell'agente della Digos Andrea Campagna. E ha anche ammesso tre ferimenti, di cui uno da lui eseguito materialmente, per i quali l'accusa è stata lesioni gravissime: quello di Giorgio Rossanigo, medico nel carcere di Novara, Diego Fava, medico dell'Alfa Romeo e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona. «Obiettivi precisi, esponenti delle forze dell'ordine, come gli agenti della polizia penitenziaria che per i Pac avevano perseguitato detenuti politici, e Torreggiani e Savarino, i due commercianti che avevano ucciso dei rapinatori. I Pac li chiamavano i miliziani perché armandosi aiutavano lo Stato a garantire la legalità e andavano puniti», ha spiegato Nobili. «Aveva in mente una rivoluzione - aggiunge il suo legale - ma ha capito che è stata una scelta politicamente sbagliata».
Ma non si può chiamarlo pentito, dice Steccanella. Tant’è vero che la stessa procura di Milano preferisce parlare di «dissociazione». «Non accuserò nessuno, ma le sentenze sono vere», ha ammesso. «Era andato via perché riteneva quel periodo esaurito - aggiunge il legale - altri non lo hanno fatto. Allora lui ci credeva, oggi si porta dietro le conseguenze umane, che pesano tantissimo». E ha detto di comprendere le proprie responsabilità e il dolore procurato alle vittime. «Mi rendo conto del male che ho fatto e mi viene da chiedere scusa ai familiari delle vittime. Provo un forte imbarazzo», ha aggiunto.
L’ex Pac ha spiegato di non aver goduto di alcuna protezione durante la latitanza, ma solo di solidarietà. «È giusto sfatare queste leggende in cui si parla di servizi deviati o criminalità organizzata - spiega Steccanella - Si è trattata della solidarietà militante da parte di chi lo ha ritenuto un rifugiato politico». Battisti si è avvalso delle sue dichiarazioni di innocenza per avere aiuti da organizzazioni di estrema sinistra sia in Francia, Messico e Brasile, e dello stesso Lula. «Non ha mai vissuto da fuggiasco dov’era - aggiunge - ma alla luce del sole, con documenti. E ha lavorato per mantenersi».
Ma se oggi ha parlato, dopo essersi dichiarato innocente per anni, lo scopo non è ottenere benefici, puntualizza il suo legale, bensì «recuperare la giusta dimensione di un racconto per la prima volta fatto in prima persona. Non è quel mostro pronto ad uccidere ancora che è stato descritto. Non è un irriducibile. Non ha più commesso reati al 1979». Non ci sarà un altro ricorso contro l’isolamento diurno per sei mesi, di cui quattro già scontati, «ma non ha senso ritenerlo pericoloso come allora».
Una confessione tardiva, certo, dopo aver per anni proclamato la propria innocenza. Ma Battisti ha confessato a Nobili di temere per la propria vita. «Avevo dovuto dissimulare ai miei ex compagni della lotta armata perché avrei messo a rischio la mia vita. Non sono un killer — ha aggiunto— ma una persona che ha creduto in quell'epoca nelle cose che abbiamo fatto. Il mio era un movente ideologico, non avevo un temperamento feroce. A ripensarci oggi, provo una sensazione di disagio, ma all'epoca era così».
«Questa ammissione fa giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni e rende onore alle forze dell’ordine e anche alla magistratura di Milano» ha commentato il Procuratore di Milano, Francesco Greco. E non si è fatto attendere il commento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. «Battisti a distanza di qualche decennio ha chiesto scusa - ha dichiarato Mi aspetto chiedano scusa quegli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e difeso questo squallido personaggio».