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La motivazione del processo d’appello sulla cosiddetta “trattativa Stato- mafia”, pur riconoscendo che la finalità dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros era del tutto legittima, in quanto volta alla cessazione delle stragi e alla tutela dell’incolumità per la collettività nazionale, censura la condotta degli stessi sostenendo che, per preservare una fazione di cosa nostra asseritamente più moderata rispetto alla linea stragista di Riina, avevano “discretamente” protetto la latitanza del vertice di questa componente, Bernardo Provenzano. Ne consegue una suggestiva, ma non certo inedita rilettura in malam partem di vicende già oggetto del giudicato penale, sino ad affermare che le attività di ricerca del latitante, arresti di affiliati e favoreggiatori compresi, erano sempre state effettuate con la precisa riserva di evitarne comunque la cattura, che avrebbe pregiudicato lo scopo ultimo dell’operazione.
Se ciò fosse vero, si sarebbe trattato effettivamente di una raffinata operazione di intelligence e di un’ abilissima manipolazione dell’avversario, condotta sul piano della prevenzione, piuttosto che della polizia giudiziaria, ma - per quanto di diretta cognizione questa ricostruzione risulta totalmente difforme dalla realtà storica, prima ancora che processuale. L’ impegno più dispendioso e incondizionato di risorse umane, tecnologiche ed economiche del Ros, fu infatti la ricerca di Bernardo Provenzano, iniziata poco dopo l’arresto di Riina e proseguita sino alla sua cattura, per oltre un decennio. Giova peraltro ricordare, come sottolineato nella mia mai contestata testimonianza avanti la Corte d’assise di Palermo, che sino alla spontanea costituzione di Salvatore Cangemi nel luglio 1993, non solo sul Provenzano non vi erano notizie, ma era addirittura diffuso tra gli addetti ai lavori il convincimento di una sua scomparsa.
Lo stesso gruppo investigativo che aveva catturato Riina, potenziato nel tempo in uomini e mezzi, avviò pertanto la ricerca, condotta sul campo esclusivamente con le tradizionali tecniche investigative e con tutte le difficoltà che questo comportava in aree ad alta densità mafiosa, dove ogni presenza è oggetto di controllo della controparte. E in particolare, rispondendo ad una domanda del Presidente della Corte, avevo ribadito che questa linea non era mai mutata, semplicemente perché la ricerca del principale latitante di cosa nostra dopo Riina, era il prioritario obiettivo del Ros. Nella citata testimonianza avevo anche ricordato come, in relazione alla vicenda Ilardo e alla riesumata “mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso”, avessi personalmente sottolineato al tenente colonnello Riccio che l’ Ilardo, dopo il suo incontro con i Magistrati di Palermo e Caltanissetta, doveva essere considerato a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia e non doveva pertanto rientrare in Sicilia.
Lo stesso Riccio, che aveva a suo tempo precluso qualsiasi servizio di pedinamento in occasione del preannunciato incontro con il latitante ( asserendo che ciò sarebbe stato troppo pericoloso e che l’opportunità si sarebbe presto ripresentata senza il timore di controlli sulla fonte), all’insaputa del Comando Ros aveva invece disatteso, con tragiche conseguenze, l’elementare misura di sicurezza. Del resto, il ten. col. Riccio aveva instaurato con l’informatore, affidatogli a suo tempo dalla Direzione della Dia, un rapporto esclusivo, tanto da trattenerne la gestione anche dopo la sua repentina restituzione all’Arma; conseguentemente, ne manteneva pure in via esclusiva l’ impiego e la responsabilità.
Dopo l’ omicidio dell’Ilardo, i dati e le confidenze raccolti e rassegnati dall’ufficiale furono sviluppati investigativamente dal Raggruppamento, e tradotti in un vasto quadro associativo ed all’operazione Grande Oriente. Pure di essa la Corte censura presunti ritardi e omissioni, sebbene le Procure di Caltanissetta e di Palermo, che dirigevano le indagini, non solo nulla abbiano mai eccepito, ma piuttosto apprezzato ed elogiato pubblicamente l’operato del Ros. Unica nota stonata fu la divulgazione mediatica che le stesse Autorità giudiziarie intesero gestire con separate conferenze stampa nelle sedi dell’Arma dei due capoluoghi distrettuali.
Se quella della mancata cattura del Provenzano a Mezzojuso è quindi una leggenda, poiché, come anzidetto, per decisione del Riccio non era stato ipotizzato alcun intervento, ma semplicemente l’osservazione dell’ incontro preliminare dell’ Ilardo con i mafiosi che avrebbero dovuto accompagnarlo in un luogo diverso e sconosciuto, nel 1997 invece, del Provenzano fu realmente sfiorata la cattura tra l’autoscuola Primavera di Palermo e Belmonte Mezzagno, dove egli era custodito dall’allora capomandamento mafioso, Francesco Pastoia. Qualcuno, necessariamente interno alla filiera delle intercettazioni telefoniche, era riuscito tuttavia a metterlo in guardia tempestivamente, e i carabinieri non poterono fare altro che osservare dalle microtelecamere di sorveglianza (queste ultime applicate autonomamente e quindi non note ad altri), le operazioni di bonifica ambientale effettuate dai mafiosi.
Da quel momento il Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Caselli, procedette ad iscrizioni criptate dei soggetti intercettati, ma era troppo tardi; furono arrestati alcuni favoreggiatori, mentre i responsabili della provocata fuga non furono mai individuati. Fu tuttavia pazientemente ripreso e ricostruito, passo dopo passo, il percorso dei pizzini utilizzati per comunicare con il Provenzano dagli altri esponenti di cosa nostra. Da un’ enorme azienda agricola di Vittoria (Rg), mimetizzati dal trasporto di ortaggi, i messaggi raggiungevano la provincia di Caltanissetta, per poi proseguire verso Casteldaccia, Baucina, e infine giungere a Bagheria, storica roccaforte del latitante, dove il reggente della famiglia mafiosa, Monreale Onofrio, provvedeva alla consegna finale.
La convergenza di indagini e di acquisizioni sulla stessa area, indusse a quel punto la Procura di Palermo (i Pm Pignatone e Prestipino) a procedere massicciamente e contestualmente sulla fitta rete di affiliati e di favoreggiatori, con gli arresti dell’operazione Grande Mandamento, condotta congiuntamente da Ros e Sco della Polizia di Stato, che costrinse il latitante a rifugiarsi nella masseria di Corleone, dove sarebbe stato infine arrestato. In quella circostanza, il Procuratore aggiunto di Palermo, dottor Pignatone, pur essendo stata la cattura opera della Polizia di Stato, sottolineò pubblicamente il fondamentale contributo del Ros ad un risultato conseguito per tappe successive, prosciugando progressivamente la rete di favoreggiamento e di supporto logistico; un metodo questo, adottato da tutte le Forze di Polizia e dalla Magistratura più esperta, per la ricerca dei latitanti di maggior spessore criminale.
Solo chi legga queste procedure con le lenti colorate del pregiudizio, oppure sopperisca con la fervida fantasia alla minor competenza, può ritenere una quasi- finzione un lavoro estenuante ed irto di difficoltà, in cui ogni scelta operativa può peraltro apparire a posteriori meno indovinata e quindi soggetta a malevoli riletture. Ma, prima ancora dell’esclusione di ogni atteggiamento di favore nei confronti del Provenzano, sono i dati storici a escluderlo oggettivamente. Non solo infatti il medesimo, come anzidetto, era ignorato sino alla costituzioni del Cangemi, ma che egli rappresentasse un’ala più moderata dell’organizzazione è frutto di acquisizioni e di valutazioni di molto successive. È pertanto profondamente errata, sotto il profilo logico e giuridico, una lettura dei fatti basata su elementi inesistenti o comunque non disponibili all’epoca.
E ciò senza scordare che le stragi non cessarono certo con la cattura di Riina, né consta che il Provenzano ad esse si sia opposto neppur successivamente. Se una spaccatura interna a cosa nostra allora era nota, si trattava di quella tra i corleonesi e i palermitani, conclusasi con la sconfitta di questi ultimi, meno feroci e determinati dei cosiddetti “viddani”. Ma che ve ne fosse un’altra interna ai corleonesi, ammesso che ciò sia esatto, avrebbe richiesto facoltà divinatorie che neppur gli abili ufficiali possedevano.
In ogni caso, come anzidetto, l’azione del Ros fu costante e incondizionata, indipendentemente dalle presunte modifiche di strategia di cosa nostra (il cosiddetto inabissamento), dettate peraltro verosimilmente dalla considerazione che lo stragismo non era pagante. Questo posso ribadirlo per aver condiviso, quale comandante di Reparto dal 1993, vicecomandante e comandante del Ros dal 1997 al 2012, tutte le attività accennate, e per aver continuato a disporle con immutati criteri, anche dopo il trasferimento del Generale Mario Mori, avvenuto nel gennaio 1999. I tanti militari del Raggruppamento che hanno operato per questi risultati con totale dedizione e, soprattutto, senza remore o riserve di alcun genere, non meritano certo sospetti, ma solo rispetto e gratitudine.
Giampaolo Ganzer, già comandante del Ros dei carabinieri