Si è concluso un anno tormentato, nel quale il tema dei femminicidi ha elevato l’apprensione sociale, ma anche l’incapacità generale di capire un fenomeno che andrebbe indagato sul piano culturale più che nei tribunali, per trovarne antidoti nel vivere sociale e tra le mura domestiche.

Sul caso Cecchettin e quello di Giulia Tramontano, che hanno attratto l’interesse mediatico con i processi celebrati prima di tutto in tv, con periti, esperti e giuristi a dire la loro e sentenziare, alla fine i tribunali hanno concluso con l’ergastolo per Turetta e Impagnatiello. In mezzo l’inasprimento del codice rosso e la richiesta (assecondata dal legislatore) di inasprimento delle pene.

L’8 gennaio 2025 la Corte d’assise di Modena, nel giudizio sul duplice femminicidio di Gabriela Trandafir e della figlia Renata, ha condannato a 30 anni di reclusione il responsabile, Salvatore Montefusco, al quale sono state riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle contestati aggravanti. La sentenza ha fatto gridare allo scandalo con una levata di scudi bipartisan di politici e associazioni a difesa delle donne, che hanno all’unisono, stacciandosi le vesti, criticato l’estensore della sentenza (una donna, la Presidente Ester Russo) di grave arretramento culturale.

A queste persone a cui di tutta evidenza sta più a cuore inseguire il consenso dell’opinione pubblica anche su un terreno così delicato, sfugge il senso primo della sentenza di condanna che in ossequio al dettato costituzionale deve tendere alla risocializzazione del reo (art. 27 Costituzione). Hanno valutato, come ha fatto la Giudice, la portata di una pena alla reclusioni di 30 anni per una persona che di età ha 70 anni? Che senso avrebbe una condanna all’ergastolo per una persona di 70 anni che probabilmente non arriverà neppure a scontare l’intera pena inflitta di 30 anni. In che modo un ergastolo a 70 anni può costituire viatico di revisione dell’agito e risocializzazione, perché a questo deve tendere la pena comminata, non a compensare il danno irreparabile compiuto con l’omicidio di una persona.

Ed ancora ci chiediamo e chiediamo: si può ancora pensare alla pena senza fine mai come strumento di recupero umano e restituzione alla società di una persona migliore? La reazione alla sentenza evidenzia come per certe “autorevoli” persone la pena per essere accettabile e socialmente legittima non deve essere commisurata alla responsabilità del reo e alle circostanze del fatto, ma corrispondere alle aspettative del pubblico e alle contingenze del suo insindacabile gusto.

Perciò essendosi ormai tutti, a destra come a sinistra, fatti la bocca ai sapori forti, cioè all’idea che il massimo della giustizia coincida con il massimo della pena per tutti i reati più gravi e riprovevoli, che un processo per omicidio – a maggior ragione se si tratta di femminicidio – si concluda con qualcosa di diverso dall’ergastolo è da considerarsi come un oltraggio alla vittima e al popolo tutto, in nome del quale la sentenza viene pronunciata .

L’insurrezione della politica indignata è scattata per riflesso condizionato a comando, di fronte alle prime sintesi giornalistiche, anch’esse convenientemente allarmate e attonite, sulla sentenza e le sue motivazioni. Nessuno degli istantanei commentatori aveva né letto, né meditato le duecentotredici pagine in questione, perché presumeva di non averne bisogno. Non rilevano nella vicenda davvero le ragioni per cui la Corte ha condannato l’assassino “solo” a trent’anni di reclusione, riconoscendo attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate (avere agito contro la coniuge, in presenza di un minore e in un contesto di maltrattamenti in famiglia) ed escludendo la premeditazione del delitto. Rileva solo che i giudici non si dovevano permettere di fare quella sentenza.

A leggere le duecentotredici pagine scritte dalla Presidente del collegio con lo spirito di verità con cui si leggono le tragedie greche (si pensi all’Orestea di Eschilo), come meditazione dell’immanenza del male nelle relazioni e nei comportamenti umani, senza liquidarle sbrigativamente, si capirebbe il senso di quanto motivato (si immagina con grande fatica, disagio e non trascurabile sofferenza) si capirebbe (come traspare dall’interrogatorio del figlio dell’omicida) in che senso per i giudici, analizzando il clima familiare e le violenze morali e materiali che i coniugi – l’assassino e la moglie, con il sostegno della figlia – reciprocamente si infliggevano, abbiano ritenuto che tale clima abbia innescato il raptus omicida unitamente alla condotta confessoria, al contegno processuale e alla sostanziale incensuratezza dell’imputato. E abbiano valutato la concessione delle attenuanti generiche, pur con l’esclusione di quella della provocazione da parte delle vittime.

I giudici, con ampia motivazione, giungono alla conclusione che l’imminente sentenza di separazione e il rischio concreto di perdere sia l’abitazione (pagata dal marito e intestata alla moglie), sia l’affidamento del figlio minore, abbia innescato nell’uomo il black out omicida, maturato all’interno di una irrimediabile faida familiare. “La comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato” – passaggio delle motivazioni a cui i giudici sono stati impiccati sulla pubblica piazza mediatica – non è stata invocata per giustificare il delitto o minimizzarne la gravità, ma semplicemente per irrogare una pena più lieve, ma pur sempre di trent’anni, per il duplice omicidio.

C’è un passaggio vanamente, ma meritoriamente didascalico della sentenza in cui i giudici spiegano che le attenuanti generiche «costituiscono il “luogo privilegiato” in cui trovano spazio considerazioni di equità a favore del reo, in ragione delle circostanze individuali nelle quali si è trovato ad agire all’epoca dei fatti. E ciò, segnatamente, per i delitti di competenza della Corte di Assise, la cui esistenza trova la ragion d’essere della composizione mista del giudicante, sia nella necessità che le pene più gravi siano irrogate in nome del popolo italiano da una giuria che lo contempli nella sua effettiva costituzione e non solo simbolicamente; sia nella capacità del cittadino comune (che si esprime al di là dei tecnicismi propri del giudice togato e oltre gli stessi) di comprendere, di giudicare e infine di calibrare la sanzione utilizzando la sensibilità, il senso logico ed etico, la quotidiana esperienza, l’assennatezza del quisque de populo, ed, in ultima analisi, l’onestà e il comune sentire del buon padre di famiglia di latina memoria».

Il codice penale ha in mente appunto il “cittadino comune” e il “quisque de populo”, non il pubblico dello spettacolo giudiziario e l’indignato collettivo, che esige, come minimo, di buttare la chiave della cella di qualunque assassino.

I giudici di Modena citando la Corte Costituzionale, a proposito della valutazione comparata delle attenuanti con le aggravanti, hanno ricordato come «attraverso tale ragionamento si vada ad attuare il principio di proporzionalità, desunto dagli artt. 3 e 27 della Costituzione, che esige che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo il quale a sua volta dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile».

Queste le considerazioni che portano ad accogliere la sentenza non come la mancata occasione di una pena esemplare (ergastolo) ma come il momento, spesso doloroso, in cui il Giudice immagina un percorso sanzionatorio che possa lasciare aperta la speranza di un percorso di revisione e di risocializzazione, ben sapendo che il bene assoluto della vita stroncata non può trovare, né troverà mai, compensazione o ristoro nella pena comminata dalla sentenza, pena che non ha la finalità retributiva bensì quella voluta dall’art. 27 della Costituzione.

Frequentemente la rabbia, sempre più feroce, induce a ritenere il diritto penale non più come limite alla pretesa punitiva dello Stato, che si suppone proporzionata alla gravità del fatto, ma come mero strumento di vendetta legalizzata, con buona pace di quel principio di umanità che si vorrebbe contrapporre all’utilizzo degli algoritmi predittivi nell’ambito della giustizia penale.