Cinque minuti per suicidarsi purtroppo si trovano facilmente: per questo racconto cos’ho vissuto quando mi è stata revocata la liberazione condizionale, che per me ha significato il ritorno alla pena dell’ergastolo, e come l’ascolto attento degli operatori e la collocazione in una “cella aperta” mi abbiano davvero “salvato la vita”.

Come redazione di Ristretti Orizzonti abbiamo recentemente “incontrato” online alcuni Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale. Il professor Samuele Ciambriello, Garante della Regione Campania, ci ha chiesto quali azioni riterremmo utili, noi detenuti, per prevenire i suicidi in carcere. Nella mia mente hanno iniziato a farsi largo un sacco di risposte: dal sovraffollamento alla mancanza di lavoro, dalle carenze della sanità alla necessità di colloqui affettivi e così via. Un elenco molto lungo, con motivazioni tutte valide, ma poi ho provato a fare sintesi, e prima di rispondere mi sono chiesto cosa avesse realmente funzionato, a mio parere e nel mio caso, un paio di anni fa quando ho fatto rientro in carcere. Ho quindi “fatto memoria” e il lungo elenco si è essenzialmente ridotto a due principali componenti: Ascolto e sezioni aperte.

L’Ascolto mi ha permesso di superare il periodo più critico della carcerazione

È certo prezioso sempre l’ascolto del volontariato, ma è fondamentale l’ascolto degli operatori istituzionali. Per provare a rendere meglio l’idea racconto quindi per sommi capi cos’ho vissuto quando mi è stata revocata la liberazione condizionale, che per me ha significato il ritorno alla pena dell’ergastolo. All’origine di tutto, l’incapacità di gestire non tanto la mia vita lavorativa all’esterno, che funzionava benissimo, quanto i sentimenti, una difficile vita di relazione, un rapporto affettivo che è degenerato e ha fatto venir fuori la mia aggressività, con cui ancora non avevo fatto i conti. Il senso di prostrazione e la sensazione di fallimento totale sono stati fortissimi, forse peggiori di quel che avevo sperimentato all’inizio della carcerazione, risalente a circa 28 anni prima. Ero veramente disperato, ricordo che quando mi avevano convocato in Questura per comunicarmi la revoca del beneficio mi ero sentito male, l’aria sembrava non voler più entrare né uscire dai polmoni, avevo dovuto farmi accompagnare in bagno per vomitare, e, reduce da un brutto infarto che mi aveva colpito qualche mese prima, temevo seriamente di non farcela.

Una volta arrivato in questa struttura, per prima cosa venni appoggiato per qualche ora in una delle celle della cosiddetta accettazione. Ricordo che camminavo continuamente, tre metri avanti e tre metri indietro, ripetendo ininterrottamente, ad alta voce, “è finito tutto, è finito tutto, è finito tutto…”. Non riuscivo a fermarmi, e recitare quella frase mi dava la sensazione che probabilmente non solo la mia libertà, ma anche la mia stessa esistenza, erano arrivate al termine.

Riuscii a smettere soltanto quando venni chiamato nell’ufficio dell’educatrice, presente la psicologa e successivamente, a conferma che le mie condizioni non erano delle migliori, anche lo psichiatra. Col senno del poi devo ammettere che furono molto professionali: mi fecero parlare molto, e soprattutto Ascoltarono tanto. Piangevo a dirotto, ero disperato e agitato, così lo psichiatra mi portò un bicchierino di plastica con 40 gocce di EN, che a suo dire mi avrebbero aiutato a stare più tranquillo per un paio di giorni.

Pensavo continuamente ai miei familiari (“meno male che il babbo e la mamma sono già morti, almeno si sono risparmiati questo ennesimo dolore”), ai miei fratelli e alle mie figlie, ai pochi amici e ai colleghi di lavoro, e mi sentivo così male che non volevo assolutamente avere a che fare con nessuno; perciò chiesi di essere messo in isolamento, ma un assistente capo della polizia penitenziaria mi spiegò che non potevano lasciarmi da solo. Compresi il perché poco dopo: per scongiurare che potessi suicidarmi mi era stata applicata la Grandissima Sorveglianza, e cioè un “protocollo” ben preciso che prevede più azioni.

Oltre a un controllo più assiduo da parte degli agenti (che a mio parere sarebbe servito a poco, cinque minuti per suicidarsi si trovano facilmente), per me fu sicuramente essenziale la successiva azione di Ascolto da parte dell’educatrice e della psicologa.

Non so se nei miei confronti ci fu “un occhio di riguardo” per il fatto che in questo carcere avevo già scontato tanti anni, ma mi chiamavano spesso, mi chiedevano come andava, mi facevano parlare, e la loro attenzione mi permise di superare il periodo più critico, circa due mesi in cui il mio stomaco accettò pochissimo cibo, e la mia mente non fece sicuramente grandi progressi né tanto meno progetti di alcun tipo.

A un certo punto educatrice e psicologa mi proposero di impostare e seguire un percorso utile a individuare cosa non avesse funzionato, e cioè i motivi per i quali mi era stata revocata la liberazione condizionale, al fine di individuare i punti e gli elementi sui quali poi lavorare, e in quel momento mi resi chiaramente conto che qualcuno si stava occupando di me, e che sulla mia persona c’erano comunque e ancora dei progetti, “indipendentemente da quel che era successo e nonostante tutto”. Quell’Ascolto, quell’attenzione e quella progettazione vinsero il mio senso di solitudine e di disperazione, e riaccesero inaspettatamente la fiammella della Speranza senza la quale (e questo vale per tutti gli esseri umani) oggi non sarei qui.

Che cosa rappresenta una sezione aperta?

“E mo’ dove ti mettiamo?”, mi domandò e si chiese quell’assistente capo, con una voce e uno sguardo preoccupati. “Assiste’, se proprio l’isolamento non è possibile, perché non mi mette al Quinto blocco, dove sono già stato per una dozzina d’anni prima di uscire in misura alternativa, nel 2012? Magari conosco ancora qualcuno”.

“Ma quella è una sezione per i lavoranti… fammi fare una telefonata”.

Col carrello contenente il materasso in gommapiuma, un cuscino, le lenzuola, un secchio e due scodelle arrivai così al Quinto, e nonostante non conoscessi più nessuno trovai almeno il sollievo della sezione aperta. Mi chiedo per quale motivo già da parecchi anni le celle vengano elegantemente definite “stanze di pernottamento”, e cioè un locale dove si dovrebbe rimanere soltanto per dormire, quando invece, nelle cosiddette sezioni chiuse, si è sempre nella propria cella, dalla quale si può uscire soltanto per andare all’aria, in saletta, a telefonare oppure in doccia (non liberamente ma secondo degli orari prestabiliti).

Nella sezione aperta avevo almeno la possibilità di abituarmi nuovamente alla detenzione con delle modalità… dunque, può sembrare ironico ma non è questa la mia intenzione… sì, con delle modalità più leggere. Infatti, nella sezione aperta l’agente del piano apre tutti i cancelli alle 7.30, e salvo alcuni passaggi necessari alla “conta”, ripassa soltanto per la successiva chiusura delle 19.30. Si tratta comunque di 12 ore di galera, ma nel frattempo si ha la possibilità di andare in doccia, a telefonare o in saletta quando si vuole, senza bisogno di chiamare l’agente magari impegnato in altre incombenze. Anziché dover per forza rimanere nella propria stanza con il proprio “concellino”, si può decidere di fare due passi nel corridoio, o di andare nella cella di qualche altro compagno anche soltanto per fare due chiacchiere con una persona diversa o per un caffè.

In fin dei conti, si potrebbe obiettare, non sono altro che piccole cose, dei dettagli che non cambiano sicuramente la sostanza degli anni che devi fare in carcere, ed è vero, ma altrettanto vero è che una sezione aperta rappresenta anche una non trascurabile iniezione di fiducia che ti viene concessa, e un tacito patto di responsabilità con l’amministrazione penitenziaria. Spesso siamo proprio noi detenuti, infatti, a smussare le intemperanze per fare in modo che la sezione stia il più tranquilla possibile, “altrimenti finisce che ci chiudono”. Personalmente penso che la sezione aperta permetta una maggiore socialità, una migliore interazione, penso che riduca il disagio, la rabbia e i conflitti, ed è sicuramente utile a stanare le persone che stanno più male, che non hanno molta capacità di chiedere aiuto.

Penso che le sezioni aperte siano anche un antidoto alla depressione e alle brutte intenzioni: qualche tempo fa, quando ancora i suicidi nelle carceri erano “soltanto” 44, una statistica del Garante nazionale dei detenuti ha reso noto che 39 di questi suicidi - e cioè l’89 per cento - erano avvenuti nelle sezioni chiuse, e soltanto 5 nelle sezioni aperte.