Ha donato tutti i suoi organi, dimostrando di avere una umanità che gli è stata negata dallo Stato e dal sistema penitenziario. È stato l’estremo gesto di G. O., un ragazzo di 27 anni, che si era impiccato nella sua cella a Cagliari la settimana scorsa, morto questa notte in ospedale. Era un tossicodipendente in attesa di andare in comunità, segnalato dai genitori e costretto in una cella nella quale non doveva stare.

Parliamo della Casa Circondariale “Ettore Scalas” che, dice Maria Grazia Caligaris presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, «registra la presenza di 765 detenuti (32 donne) a fronte di 550 posti disponibili e una forte carenza di agenti penitenziari e operatori». La morte di G. O. fa salire a 82 il numero dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, ai quali bisogna aggiungere i 7 agenti della penitenziaria.

Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale della Sardegna e tesoriere del Partito Radicale, non si dà pace. Conosceva bene quel ragazzo e ha scritto una lettera al ministro della Giustizia Nordio per esprimere tutto il suo disappunto.

«Da giorni penso e ripenso a quella visita, a cosa avrei potuto fare. Lo avevo incontrato due giorni prima che compisse il gesto disperato. Aveva catturato la mia attenzione perché a differenza di altri non chiedeva niente. Quando si entra nelle sezioni le richieste d'aiuto sono interminabili e si levano disperate da tutte le celle come fossero gironi infernali. Ma lui no, non aveva chiesto niente. Era seduto pensieroso davanti alla finestra della sua cella. Gli ho domandato se stava bene. Sembrava spaesato, come se quella dimensione non fosse per lui. Occhi azzurri e volto pulito, lo facevano apparire come un corpo estraneo all'interno di un contenitore di dolore. Mi ha detto che stava leggendo un libro che teneva sulla branda e che aspettava il nulla osta per poter andare in comunità. Il compagno di cella si preoccupava per lui, ripeteva in continuazione che non stava bene e che aveva già tentato il suicidio. Doveva essere curato non custodito. In tanti in questi giorni ci siamo sentiti in colpa, ci siamo domandati se ognuno di noi avesse potuto fare di più».

La garante Testa pensa alla madre del ragazzo e aggiunge: «Abbiamo fallito tutti ed è inaccettabile che noi operatori a vario titolo dobbiamo sentirci in colpa a causa di un sistema che non funziona. Di un sistema che fa strage di diritto e di vite umane. Di un sistema che induce alla morte più che a riprendersi la vita. Non si può continuare ad assistere a questa carneficina quotidiana. E non dobbiamo essere noi operatori a chiedere scusa ma uno Stato assente e cinico che ha deciso di nascondere il disagio all'interno di contenitori oramai illegali che producono morte e disperazione. Mi rifiuto di accettare che il carcere produca morte anziché riabilitazione. Mi appello ancora al ministro della Giustizia affinché comprenda che ogni giovane che evade dal carcere togliendosi la vita è anche e soprattutto un suo fallimento». E sui social Irene Testa ha voluto sottolineare l’ultimo gesto di G.O.: «Era una sua volontà scritta da tempo. Lo scrivo perché voglio che si sappia di questo suo importante gesto. Voglio che si sappia che la sua vita non valeva meno di altre anche se detenuto».

Denunce quotidiane che arrivano da più parti, ma il governo è granitico sulle proprie convinzioni e sordo a qualsiasi sollecitazione. Il decreto Carceri, convertito in legge all’inizio di agosto, è diventato un vero e proprio mantra. Da mesi, sia il ministro Nordio sia il sottosegretario Del Mastro, ripetono che le misure previste nel provvedimento serviranno a ridurre la popolazione carceraria, i suicidi in carcere e affrontare il problema dei detenuti tossicodipendenti.

Purtroppo i mesi passano e al 25 novembre, secondo i dati pubblicati dal Garante nazionale, i detenuti sono 62.410, rispetto ai 46.771 posti regolarmente disponibili, per l’inagibilità di 4.478 posti. Il che significa il 133,44% di sovraffollamento medio, con San Vittore che è al 231,49. Ancora ieri il ministro Nordio lo ha ribadito nel question time alla Camera, rispondeva a Roberto Giachetti di Italia viva: «Sono stati previsti nuovi percorsi di comunità per detenuti affetti da disagi psichico o tossicodipendenti. Abbiamo più volte ripetuto che molti tossicodipendenti più che essere criminali da punire sono ammalati da curare».

E il guardasigilli ha aggiunto: «Per contrastare il fenomeno dei suicidi abbiamo investito molto sul potenziamento della rete di assistenza psicologica e sull’opera di reclutamento di adeguato personale specializzato per rispondere a queste crescenti esigenze. Il Dap sta monitorando con costanza l’esistenza e l’adeguamento dei piani locali e regionali per la prevenzione dei suicidi. Lo stesso sostegno è stato fornito al Corpo di polizia penitenziaria».

Peccato che Caterina Pozzi, presidente del Coordinamento nazionale comunità accoglienti, nella conferenza stampa di martedì scorso alla Camera, abbia fatto un quadro della situazione che è molto lontano da quello rappresentato dal governo: «Ci sono 400 persone con problemi di dipendenza patologica in misura alternativa alla detenzione, ma quasi altrettanti posti sono disponibili nelle comunità della rete sparse per l’Italia». Durante la conferenza “Vuoti a prendere. L’affidamento in prova in comunità per i detenuti tossicodipendenti, una pratica in calo mentre il sovraffollamento carcerario aumenta”, sono stati sottolineati altri aspetti: negli istituti di pena italiani ci sono 17.405 detenuti tossicodipendenti, pari al 29%, ma solo il 7% che ha problemi legati all’uso di sostanze ha accesso a un percorso alternativo alla detenzione nelle comunità terapeutiche, come riportato nella “Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024”.