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A seconda il luogo dove si viene fermati e arrestati dalla polizia, il trattamento cambia. È uno delle problematiche riscontrate dal progetto Inside Police Custody, realizzato dall’associazione Antigone con il contributo della Direzione generale Giustizia e Consumatori dell’Unione Europea. Tale ricerca è finalizzata a misurare l’effettiva applicazione di tre delle direttive previste dalla roadmap di Stoccolma: una riguarda sia il diritto di arrestati e fermati a essere informati sui propri diritti che quello di accedere per tempo al proprio fascicolo, in modo da poter preparare una difesa adeguata; l'altra riguarda il diritto degli arrestati stranieri a essere assistiti da traduttori e interpreti che rendano loro intelligibile quanto accade; la terza e ultima riguarda invece il diritto all'assistenza legale in generale.
Il report, in inglese, è ben dettagliato. Grazie alla sintesi di Antigone a firma di Claudio Paterniti Martello, si evincono dei particolari interessanti come il fatto che solo a Bologna, tra le città prese in considerazione, la pratica di portare a casa gli arrestati trova applicazione con una certa frequenza. A Palermo al contrario si fa sistematicamente ricorso al carcere, nonostante le raccomandazioni ministeriali vadano in senso opposto; a Roma infine gli arrestati vengono portati sia in carcere che nei commissariati o nelle stazioni dei carabinieri. Una disparità di trattamento non da poco e vale spiegare il perché. Subito dopo l’arresto – spiega Antigone - si può essere condotti a passare la notte in tre posti diversi: a casa propria, in carcere o in o in una camera di sicurezza di una struttura delle forze dell’ordine.
Portare l’arrestato a casa ad attendere l’udienza di convalida ( che in genere ha luogo il giorno dopo) implica un risparmio di risorse e mezzi ed evita una misura coercitiva spesso inutile. In molti casi in effetti il rischio di fuga o inquinamento delle prove è basso o nullo. Il ricorso al carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, da un punto di vista normativo. Ogni ingresso in un istituto penitenziario comporta in effetti l’attivazione di un protocollo gravoso per l’amministrazione penitenziaria, e in questo caso si parla di soggiorni che spesso durano solo poche ore, in quanto l’arrestato viene messo in libertà dopo la prima udienza. Questi ingressi, oltre ad alimentare il sovraffollamento penitenziario, sottopongono l’arrestato a un inevitabile choc ( la fase dell’arrivo in carcere è quella in cui il rischio suicidi è più elevato). Infine vi è la possibilità di ricorrere alle celle di commissariati e caserme dei carabinieri, le cui condizioni però non sono delle migliori, come ha messo in luce il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà nella relazione presentata al Parlamento nel 2017. Parliamo delle camere di sicurezza, ovvero le stanze presenti nelle caserme dei carabinieri e nelle questure che servono per trattenere le persone in attesa di un processo per direttissima. L’idea di ricorrere più spesso a questa modalità è stata sollecitata dall’ex guardasigilli Paola Severino per evitare le cosiddette “porte girevoli” che ingolfano gli istituti penitenziari. Altra criticità riguarda gli stranieri: sia a causa della mancata conoscenza della lingua che per una mancanza di familiarità col sistema penale italiano, gli stranieri hanno una minore consapevolezza dei propri diritti. In più di un caso è stato riferito ad Antigone di arrestati convinti di essere finiti in tribunale per via del loro status di immigrati irregolari, mentre erano lì perché accusati di reati come resistenza a pubblico ufficiale. Un reato, secondo Antigone, contestato con grande facilità nei loro confronti.