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I reati sono particolarmente odiosi: violenze sessuali su minori, anche di gruppo, e maltrattamenti. Odiosi e disgustosi se si pensa al luogo dei delitti: una comunità per ragazzi svantaggiati. Il caso, almeno in Toscana, non ha bisogno di altre didascalie: bastano i nomi di quel luogo, il Forteto, a Vicchio del Mugello in provincia di Firenze, e dell’autore dei reati, Rodolfo Fiesoli, sedicente profeta della comunità stessa, giunto quasi al termine di una vicenda processuale delineata. Ma basta tutto questo a sospendere diritti e garanzie previsti per qualsiasi imputato? Così sostiene più di un esponente di spicco della politica locale di fronte alla scarcerazione del “mostro”, avvenuta domenica scorsa in seguito a un’ordinanza della Cassazione del 5 luglio. La prima sezione ha accolto il ricorso dei suoi avvocati Lorenzo Zilletti e Oliviero Mazza e ha stabilito che l’imputato non può restare nel carcere di Sollicciano giacché – semplicemente – la pena inflittagli non è definitiva. Il processo per gli abusi al Forteto – filone principale della terribile vicenda giudiziaria – non è concluso: lo scorso 22 dicembre la stessa Cassazione aveva respinto il ricorso di Fiesoli su molti capi d’imputazione, ma aveva annullato con rinvio la sentenza d’appello per inadeguatezza della motivazione nel determinare la pena e per la qualificazione esatta di uno degli specifici reati contestati, tuttora incerta tra violenza semplice o di gruppo nei confronti di una delle giovani vittime. Vuol dire che la condanna a 15 anni e 10 mesi non è affatto definitiva.
Plausibile che la nuova pronuncia in appello ( l’udienza è fissata per il 16 novembre) non si discosti molto da quanto stabilito in precedenza: in ogni caso il processo è in piedi, non è chiuso. Sacrosanto che le vittime protestino, anche con flash mob su Facebook. Assai meno che ricorra a certe considerazioni, per esempio, il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani: «La scarcerazione? una cosa molto grave», ha detto, «la giustizia italiana si trova spesso in situazioni in cui per figure palesemente responsabili di fatti gravissimi, come in questo caso, vediamo una situazione incongrua» perché, figurarsi se non era così, «nel cavillo della legge si inserisce l’abilità dell’avvocato». Dovrebbe essere il contrario: se la legge è uguale per tutti lo è sempre, anche nei risvolti favorevoli agli autori dei reati peggiori. L’iperbole è nei sondaggi che fioccano in rete.
Uno persino sul sito della Nazione: «Scarcerato Fiesoli: lo ritieni giusto?». Seguono le due possibili risposte: «Sì, bisogna rispettare la sentenza della Cassazione» e «no, doveva comunque restare in carcere».
Tradotto: chi dice che sentenze si devono applicare?...
Clima pesante ma viziato anche da quella che, con parole difficilmente contestabili, la Camera penale di Firenze definisce «micidiale convergenza tra pressappochismo giuridico (di cui ha responsabilità anche quella stampa che ha fornito la notizia in modo fuorviante) e giustizialismo da accatto». Nel comunicato dei penalisti si nota come la logica ormai costante di certe reazioni affermi che «quando le cose son così chiare e i reati così gravi, non c’è bisogno di far processi e attender sentenze». Meglio tenere a freno la tentazione di accettare strappi alle regole. Perché, come fa notare ancora la Camera penale fiorentina, «oggi si contesta il sacrosanto principio del giudicato, domani si dirà che anche l’appello, insomma, quando i fatti son chiari, si perde tempo…». Che poi non è una cosa mai detta, negli ultimi anni. In Parlamento o da qualche pm.