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Il clima politico intorno alla riforma del processo penale firmato Marta Cartabia non è sereno. Lo raccontiamo in altre parti del giornale. Ma anche dal punto di vista tecnico non tutto sembra filare liscio. In primis relativamente all’improcedibilità dell’azione penale. Normata dall’articolo 14 bis del pacchetto di emendamenti governativi, è la vera novità della riforma. La partita per raggiungere l’obiettivo dell’effettiva riduzione dei tempi processuali si gioca anche sul nuovo meccanismo che dovrebbe garantire la ragionevole durata: blocco della prescrizione dopo il primo grado, per salvare parte della Bonafede, ma improcedibilità per appello e Cassazione se non si rispettano dei termini di fase. Si tratta di un istituto nuovo che immediatamente suscita questa domanda: non estinguendo il reato, come si concilia, tale itituto, con il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale? Come può un processo svanire nel nulla, pur restando in piedi il reato? A una prima lettura è una perplessità condivisa anche dal presidente dell’Anm Santalucia, che al Dubbio dice: «Non è agevole cogliere quale possa essere il fondamento costituzionale di un siffatto meccanismo, calato in un sistema in cui non poche Corti di appello sono in difficoltà e non sono ad oggi nelle condizioni di rispettare una tempistica così stringente. Il meccanismo, se non calibrato ragionevolmente sulle condizioni organizzative e operative di tutti gli uffici giudiziari, potrebbe non armonizzarsi con il principio di obbligatorietà dell’azione penale». Questo in parte è vero, perché se in appello, in 19 distretti su 29, la durata media è già inferiore ai 2 anni, sette distretti registrano tempi anche di molto superiori alla media (Napoli 2.031 giorni, Reggio Calabria 1.645, 1.247 Catania, 1.111 Lecce, 1.142 Roma, 1.028 Sassari, 996 Venezia). Inoltre è vero che la norma risolve il problema della retroattività sostenendo che si applica a tutti i reati commessi dal 1° gennaio 2020, data dell’entrata in vigore della legge Bonafede, ma, per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, «sarà necessario chiarire meglio la natura della norma. E comunque resta la mia perplessità sulla mantenuta omologazione del condannato con l’assolto nella cessazione della prescrizione con la sentenza di primo grado». Spangher aggiunge un altro elemento: «Se il pubblico ministero impugna la sentenza di assoluzione in primo grado e sopraggiunge l’improcedibilità per decorso dei tempi processuali, l’assoluzione si converte in improcedibilità. Si tratta di una reformatio in peius per decorso del tempo». Infine si chiede se «non sarebbe meglio parlare di causa di non punibilità invece che di improcedibilità. Non basta modificare l’articolo 578 cpp, prevedendo che, in caso di condanna al risarcimento del danno e di sopravvenuta improcedibilità, il giudice di appello o di Cassazione rinvii per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello. Questo nuovo istituto andrebbe ridefinito in tutti i profili e le conseguenze che può determinare». Un’altra questione nasce proprio dal punto di approdo a cui si è dovuti arrivare per far digerire la riforma ai cinque stelle: il regime speciale per i reati contro la pubblica amministrazione. Per alcuni, come il professor Ennio Amodio, si viola così il principio di uguaglianza: «Non si capisce perché debba avere un trattamento deteriore chi è colpito dall’accusa di corruzione». Ci sarebbe voluto poi più coraggio sui riti alternativi: nella prima bozza Lattanzi, si era detto che il patteggiamento poteva arrivare fino alla metà della pena, ora però questa ipotesi è scomparsa. Solo così, per il pm e segretario di “Area” Eugenio Albamonte, invece «avremmo avuto una decurtazione degli arretrati e una riduzione dei tempi». Sparita anche l’archiviazione meritata.