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diritto di difesa
È la riforma principe della partita Recovery. Purché si raggiunga un obiettivo: la riduzione del tempo dei processi, che oggi in primo grado si trascinano in media fino a 1270 giorni. La legge delega votata al Senato con tanto di fiducia si pone un obiettivo ambizioso: tagliare quei tempi del 40%. Ma secondo l’avvocatura tale risultato è tutt’altro che scontato. Di più, il rischio è quello di allungare i tempi, anziché ridurli. L’obiettivo polemico è sempre lo stesso: la fase introduttiva del processo, che dilaterebbe irragionevolmente l’accesso al giudice, complicandone il ruolo. E ciò attraverso una scelta criticata dall’avvocatura e smentita dalla politica -, ovvero la reintroduzione del rito societario, abrogato in passato proprio perché «inefficiente e inutilmente complicato, soprattutto nei casi di processi plurilaterali ». Una critica alla quale ha replicato Fiammetta Modena, senatrice di Forza Italia e relatrice delle ddl: «Il nuovo rito non è uguale a quello societario, molto più complesso e senza la linearità delle memorie ex articolo 183 anticipate rispetto alla prima udienza. Nella normativa abbiamo introdotto volontariamente il calendario del processo, che prevede sanzioni per chi non lo rispetta. E a questo aspetto bisognerebbe prestare molta attenzione». Nonostante alcuni aspetti salutati da tutti come positivi, come il procedimento e la sezione specializzata in materia di persone, minorenni e famiglie, che ricalca fondamentalmente la proposta elaborata dalla Commissione famiglia del Cnf, sono le modifiche sul rito a finire nel mirino degli addetti ai lavori. «Si rischia di avere un processo macchinoso », aveva spiegato il consigliere del Cnf Alessandro Patelli. Un timore al quale Modena ha voluto porre un argine, ricordando del fatto che «si tratta di principi di delega, quindi tutte queste ipotesi sicuramente troveranno delle individuazioni in sede di decreto legislativo». Insomma, il tiro si può ancora aggiustare. Ma gli aspetti negativi, secondo l’avvocatura, sono diversi. In primo luogo l’arretramento delle preclusioni istruttorie, che secondo il Cnf, «costituisce una grave lesione del diritto di difesa, con pregiudizio alle ragioni dei cittadini e delle imprese». Ma non solo: l’altra conseguenza sarebbe anche la contrazione dei poteri delle parti e un aggravamento della responsabilità del difensore. Altro aspetto critico è l’inserimento dei termini per le memorie per definire il thema decidendum e il thema probandum tra gli atti introduttivi e la prima udienza, che comporta un allungamento del termine per comparire e la conseguente fissazione della prima udienza ad ampia distanza dalla notificazione dell’atto di citazione. Inoltre, lo scambio di tali memorie avviene senza il controllo del giudice, in una fase che precede la prima udienza. Secondo il Cnf, «le preclusioni istruttorie devono logicamente scattare dopo che è stato ben definito il thema decidendum, anche ad evitare che, per il principio prudenziale di eventualità, le parti siano costrette a dedurre sotto il profilo istruttorio tutto il deducibile in previsione di qualsiasi futura contestazione, eccezione o domanda di controparte, appesantendo gli atti a discapito dell’attività del giudice e dei principii di sinteticità e speditezza». Se a ciò si aggiunge la previsione di istituti come il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione – che sospende il processo di merito e favorisce la deresponsabilizzazione del giudice competente –, la modifica dell’articolo 281/6 che abroga, di fatto, l’istituto prevedendo che il giudice possa riservare il deposito incidendo ancor più sul collo di bottiglia della fase decisoria, «non può che apparire evidente che le proposte approvatecostituiscano interventi di mera facciata, inidonei a risolvere i problemi della giustizia – primo tra tutti quello dell’arretrato - e a frustrare sempre più il bisogno di tutela del cittadino conclude la nota -. In buona sostanza, a fronte di processi troppo lunghi, risultano contratti soltanto i tempi della difesa, si sommarizzano gli accertamenti, si aumentano le sanzioni per le parti (inammissibilità istanza ex art. 283 c.p.c), senza punto intervenire sui ritardi imputabili all’organizzazione degli uffici e dei ruoli del magistrato». Alle critiche si è associato anche il leader dell’Unione nazionale delle Camere civili, Antonio de Notaristefani: «Si va a modificare l’intera disciplina, che risale al 1993 - aveva spiegato -, per abbreviare il processo, se tutto va bene, di soli 50 giorni». Le conseguenze negative sarebbero tre: la prima è la crisi di adattamento. «È ovvio che un sistema consolidato, analizzato in maniera approfondita dalla giurisprudenza, fa sì che ci siano delle certezze che in un sistema nuovo non si avranno». Poi c’è il problema della complessità, dal momento che in una stessa udienza i giudici tratteranno alcune cause con il nuovo rito e altre con il vecchio. La terza, forse la più importante, «è che attualmente tutte le decisioni che riguardano lo svolgimento del processo sono sottoposte al controllo del giudice. In caso di irregolarità, dunque, il giudice ferma immediatamente il processo e dispone che si rinnovino gli atti. Se tutti gli atti vengono anticipati rispetto all’intervento del giudice questo controllo non sarà possibile, con la conseguenza che alla prima udienza, in caso di nullità, bisognerà ricominciare da capo». Al coro di pareri negativi si è aggiunto anche quello del Csm, secondo cui «appare evidente la sproporzione tra l’ambizioso obiettivo indicato nel Pnrr e quelle che dovrebbero essere le sole nuove risorse umane immesse nel sistema giustizia (...) anche sprovvisti di pregresse esperienze professionali, assunti con contratti a termine». Ma non solo: la semplificazione cui si mira «sembra comunque poco incisiva, posto che gli uffici in sofferenza saranno costretti a rinviare le udienze per la assunzione dei mezzi istruttori e, soprattutto, per la precisazione delle conclusioni a distanza di anni». Il tutto con «il rischio concreto della lesione del diritto del cittadino alla difesa ed ad ottenere giustizia».