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Dopo 40 anni di carcere, senza poter uscire mai, ha potuto finalmente usufruire di un permesso per un’ora e mezza. È un permesso di necessità che ha chiesto alla magistratura di sorveglianza il 9 gennaio scorso per la morte del marito di sua sorella. Ci tiene a specificare che gli agenti penitenziari sono stati gentili con lui, perché l’hanno accompagnato in borghese e senza manette.
Parliamo di Mario Trudu, nato l’undici marzo del 1950 ad Arzana, in Sardegna. Si trova in carcere dal maggio del 1979 con una condanna all’ergastolo, quello ostativo. Trudu è un dei tanti ergastolani che non hanno la certezza della pena ( la costituzione non contempla la pena perpetua), ma la certezza di morire in carcere. Una certezza perfino retroattiva.
La norma dell’art. 4 bis ( che nega i benefici penitenziari se il condannato non decide di collaborare mettendo un’altra persona al posto suo) è stata introdotta nel 1992, dopo le stragi di mafia che dilaniarono con il tritolo Falcone e Borsellino. Una norma che però è stata resa retroattiva e applicata, come nel caso di Trudu, a reati commessi diversi lustri prima.
Trudu faceva il pastore, ma ha anche fatto parte della famosa Anonima sequestri. Infatti venne condannato per due sequestri di persona. Del primo si dichiara da sempre innocente, e tramite il suo libro edito da stampalibera “Totu sa beridadi, tutta la verità, storia di un sequestro” - tiene molto a sottolineare che se non fosse stato per quella prima ingiusta condanna ( 30 anni, ha scritto, sono davvero troppi per un reato non commesso) non avrebbe architettato il rapimento poi compiuto fuggendo da Ustica, dove era al confino in attesa della sentenza di Cassazione. Non per giustificarsi, sottolinea sempre, ma per spiegare quali sono stati i meccanismi dell’odio e della rabbia.
È in carcere, come detto, da 40 anni, destinato a morirvi perché, assumendosi in pieno la responsabilità del sequestro dell’ingegner Gazzotti ( morto in uno scontro a fuoco poco prima che venisse rilasciato), non ha mai fatto i nomi dei suoi complici.
Trudu, con il suo libro, ha aperto uno squarcio sulla storia, ancora piena di ombre, della Sardegna dei sequestri, il processo all’Anonima che tanto ha occupato le cronache a cavallo degli anni 70 e 80, e la figura del “giudice sceriffo”, il giudice Lombardini, suicidatosi dopo l’inchiesta aperta dalla magistratura sul suo ruolo nella fase delle trattative per la liberazione di Silvia Melis. Tra i rapimenti più noti dell’anonima sequestri ci furono quello di Fabrizio De André e Dori Ghezzi nel 1979. De Andrè venne rilasciato, dopo che il padre pagò un riscatto di oltre 550 milioni, il 22 dicembre del 1979 alle due del mattino, a 24 ore dalla liberazione di Dori. Fedele alla sua fama di cantore di umili e diseredati, Fabrizio si costituì parte civile soltanto nei confronti dei mandanti, «le cui condizioni economiche non consentono trovare per essi alcuna giustificazione», ma non nei confronti dei suoi carcerieri che li andò anche a trovare in carcere. Dopo quella vicenda De André compose “Hotel Supramonte”.
Ma ritorniamo a Mario Trudu. Per decenni è stato in carcere lontano dalla Sardegna, prima al carcere di Spoleto, in Umbria e poi a quello di San Gimignano, in Toscana. Solo nel 2017, dopo tanto che lo chiedeva, è stato trasferito in un carcere della sua terra, a Oristano, dove almeno può con una certa frequenza ricevere la visita dei familiari.
Trudu, però, ha anche dei problemi di salute. Una patologia gravissima e lui desidera semplicemente potersi curare, visto che la struttura carceraria non può essere compatibile. L’avvocato Monica Murru del foro di Nuoro che lo assiste, ha spiegato a Il Dubbio che lunedì scorso c’è stata l’udienza per chiedere i domiciliari per motivi di salute, perché è affetto da grave sclerodermia con interstizione polmonare. Secondo la perizia presentata dal difensore a sostegno dell’istanza, la malattia è stata dichiarata incompatibile con il regime carcerario. Il perito della ASL, invece, non lo ha detto esplicitamente, ma, confermando la diagnosi del medico legale di parte, ha scritto che la terapia per questa malattia – la quale è ingravescente e dagli esiti imprevedibilmente catastrofici - è da considerarsi di difficile attuazione in un laboratorio, e quindi va da se pensare che lo sia ancor di più in un carcere.
L’ istanza è stata discussa martedì. La Procura Generale ne ha chiesto il rigetto, mentre il difensore, parlando invece più a lungo, ha fatto notare che la situazione del detenuto è molto grave e vi ha trascorso praticamente tutta la vita in carcere.
Trudu ha anche rilasciato una dichiarazione in occasione dell’udienza: «Non vi sto chiedendo di farmi uscire, ma di farmi curare». È da ricordare, osserva a Il Dubbio l’avvocata Murru, che non è uscito dall’ergastolo ostativo, perché «ritengono che la sua collaborazione potrebbe in astratto essere ancora possibile». Aggiunge infine: «Tra pochi giorni Mario compirà 69 anni e ha passato quasi tutta la vita in carcere. Ho fatto una miriade di istanze di permesso di necessità, anche legati a progetti, ma non sono mai riuscita a ottenere nulla».