La storia del piccolo Giacomo (nome di fantasia), un bambino di soli due anni recluso nel carcere di Rebibbia insieme alla madre, ha riportato all'attenzione pubblica il delicato tema della detenzione di minori nelle carceri italiane. Un articolo di Alessandra Ziniti su La Repubblica ha evidenziato questa problematica, sollevando questioni etiche e urgenti necessità di riforma del sistema penitenziario. Secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dap al 30 giugno, ci sono 23 detenute madri con 26 minori al seguito.

Giacomo non corre e quasi non parla: “apri” e “chiudi” sono le due parole che ripete, oltre a “mamma” e “pappa”, quelle che sente dire di più dentro la cella nella quale sta crescendo e nella quale è recluso ormai da dieci mesi insieme alla sua mamma, una 30enne italiana accusata di reati minori. Anche il papà è detenuto e Giacomo lo incontra una volta a settimana nell’altra ala dell’istituto. Di lui si occupa una volontaria dell’associazione “A Roma insieme-Leda Colombini” che tre volte a settimana lo accompagna in un nido, dove può incontrare altri bambini.

La situazione carceraria in Italia è da tempo oggetto di critiche per diverse ragioni, tra cui il sovraffollamento, la mancanza di adeguati percorsi di reinserimento e la sicurezza insufficiente per gli agenti penitenziari. La presenza di bambini dietro le sbarre aggiunge un ulteriore elemento di preoccupazione a questo quadro già complesso.

Ora all’esame in Parlamento c’è il disegno di legge Sicurezza che fa venir meno l’obbligo delle misure alternative per donne con figli minori di un anno. Ma Forza Italia, che ha già presentato al provvedimento 9 emendamenti e un ordine del giorno, fa sapere, attraverso il suo capogruppo Maurizio Gasparri, di essere pronta a discutere della norma. In risposta al caso di Giacomo, un gruppo di senatori del Partito Democratico - Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando, Walter Verini e Cecilia d'Elia - ha annunciato una visita ispettiva al carcere di Rebibbia. I parlamentari hanno espresso la loro preoccupazione e sottolineato la necessità di porre fine a questa pratica, proponendo alternative come le case famiglia.

Il pensiero va inevitabilmente alla proposta di legge Siani della scorsa legislatura, che purtroppo non ha visto luce. La deputata Serracchiani del Pd l'ha ripresentata nell'attuale legislatura, ma è stata di fatto affossata con emendamenti peggiorativi da parte della Lega e alla fine è stata ritirata. La legge avrebbe consentito la custodia in istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), solo in casi di eccezionale rilevanza, privilegiando invece l'uso di case famiglia. La proposta prevedeva anche modifiche al codice di procedura penale, rafforzando il divieto di detenzione per madri con bambini piccoli e regolamentando l'uso degli Icam. Inoltre, si proponeva di obbligare il ministero della Giustizia a individuare strutture idonee come case famiglia protette e di impegnare i comuni nel reinserimento sociale delle detenute dopo l'espiazione della pena.

La proposta di Legge Siani mirava a garantire il rapporto tra il bambino e la propria madre in un ambiente non detentivo. Tale ambiente non può che essere la casa famiglia, di cui purtroppo ne esistono soltanto due in Italia: una a Roma e l'altra a Milano, grazie soprattutto agli enti privati, e ognuna può ospitare sei adulti e otto bambini. Questo perché è escluso qualsivoglia onere a carico del ministero della Giustizia. La proposta affossata, invece, responsabilizzava il ministero ad erogare risorse.

Le case famiglia hanno la peculiarità di trovarsi in località dove è possibile l'accesso ai servizi territoriali, socio-sanitari e ospedalieri, e possono fruire di una rete integrata a sostegno sia del minore sia dei genitori. Le strutture hanno caratteristiche tali da consentire agli ospiti una vita quotidiana ispirata a modelli comunitari, tenuto conto del prevalente interesse del minore.

L'Icam, l'istituto a custodia attenuata, non è adatto perché prevede restrizioni come un carcere vero e proprio: sono cinque (Cagliari, Lauro, Milano,Torino e Venezia) e hanno una capienza di 60 posti. Non ha le sembianze di un penitenziario, ma è pur sempre una struttura detentiva con tutte le criticità che esso comporta. Il resto dei bambini è in carcere. Di fatto, è impensabile che un bambino libero debba mettere piede dentro un carcere e vivere lì accanto alla madre, in un luogo che è sempre di detenzione, senza ricevere quei normali stimoli esterni, con il rischio di contrarre malattie che lo segneranno per il resto della sua vita.