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Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ostenta sicurezza sulla riforma del Csm: «Tra una cosa e l’altra servirà circa un anno, ma le regole sull’elezione saranno subito in vigore» e comunque la quadra in maggioranza sarebbe a un passo. Se sulle principali questioni - nuovo regolamento elettorale, divisione tra chi si occupa del disciplinare e chi delle nomine, blocco alle “porte girevoli” tra politica e magistratura - la convergenza è effettivamente stata trovata, il diavolo come sempre si nasconde nei dettagli. In particolare, nei parametri per la nomina dei nove componenti laici del Csm, tra i quali si elegge il vicepresidente. Nella bozza di riforma licenziata dall’ultimo tavolo di confronto di maggioranza non ve n’è traccia, ma i primi testi contenevano la previsione che i laici di Palazzo dei Marescialli non potessero essere nominati nè tra i parlamentari nè tra i membri del governo. Tradotto, una sorta di sfiducia ex post ai due ultimi vicepresidenti, David Ermini e Giovanni Legnini. La norma è stata espunta solo dopo l’ultima riunione, finita con un secco 3 a 1 contro i grillini, ma il ministro ( e anche la presidente della commissione Giustizia alla Camera, Francesca Businarolo) ha fatto capire di non aver affatto archiviato la questione e di essere pronto a ritornare sul punto, magari in Parlamento.
Che l’impuntatura dei 5 Stelle suoni quantomeno singolare, è facile intuirlo. Il paradosso, infatti, sta nel fatto che il cosiddetto caos Procure con la conseguente crisi di credibilità del Csm è maturato tutto all’interno della componente togata di Palazzo dei Marescialli. Come ha ripetuto anche il ministro, ad essere sotto processo sono «le degenerazioni del correntismo», dunque le correnti politiche della magistratura di cui uno dei perni nel “mercato delle nomine” era Luca Palamara. La componente laica, invece, è rimasta di fatto spettatrice della vicenda esplosa sulla stampa con la pubblicazione delle chat dell’ex presidente dell’Anm.
Che ragione avrebbero, dunque, i 5 Stelle per voler modificare i parametri di elezione proprio della minoranza “politica” all’interno del Csm? La domanda è sorta anche al tavolo di confronto di maggioranza, dove Pd, Italia Viva e Leu si sono trovati sullo stesso fronte di opposizione all’iniziativa del ministro. Anche perchè, è stato rilevato, i requisiti elettorali dei membri laici sono disciplinati in modo espresso dalla Costituzione all’articolo 104, che prevede che il Parlamento in seduta comune possa eleggere solo chi possiede la qualifica di professore ordinario di università in materie giuridiche oppure avvocati con quindici anni di esercizio della professione. Inoltre, poichè la nomina dei laici è prerogativa del Parlamento e dunque è di fatto una nomina politica prevista come tale dalla Carta, non si intuisce la ratio di una previsione - per di più di rango ordinario - che esclude proprio chi della politica è massima espressione ed è stato eletto nell’organo legislativo. Se sul divieto di nomina dei membri del governo potrebbero esserci margini di convincimento, il ministro ha dovuto dunque ingoiare il no secco sui parlamentari.
Secondo una componente della maggioranza, a spingere Bonafede in questa direzione sarebbe una sorta di riflesso del grillismo delle origini: la diffidenza profonda che il Movimento nutre nei confronti della rappresentanza parlamentare. Culturalmente, nonostante quasi un decennio di politica elettiva, i grillini continuerebbero a vivere nella convinzione che la figura del parlamentare sia comunque da guardare con sospetto, in quanto prodotto di un professionismo della politica. Dunque, per andare nella direzione di «separare magistratura e politica», il Guardasigilli avrebbe ritenuto di proporre la fisica rimozione dall’Organo di autogoverno della magistratura dell’unica componente esplicitamente politica, ovvero quella dei laici che per prassi vengono scelti in modo consistente tra le fila del Parlamento.
Ora, l’incognita sta in chi la spunterà alla fine: il ministro, per ora, ha dovuto cedere al niet. La riforma del Csm, però, passerà per il Parlamento e le sue commissioni e lì si svolgerà il secondo round. Insomma, quel «circa un anno» di tempo per approvare la riforma potrebbe avere già davanti un ostacolo per nulla secondario da appianare.