PHOTO
Non è un granché come decreto. E se ne sono visti di peggiori, tra i provvedimenti poco attenti ai diritti. Ma nelle nuove norme sulle scarcerazioni varate sabato notte dal Consiglio dei ministri, emanate domenica dal presidente Mattarella e in vigore da ieri, c’è una voragine giuridica pazzesca: non è previsto alcun ruolo per la difesa del detenuto. Non fa differenza che si tratti di un condannato in via definitiva, al 41 bis o in “Alta sicurezza”, o anche solo di un imputato a cui la misura cautelare sia stata sostituita con la detenzione domiciliare. Non cambia se si tratta di reati di mafia, droga o terrorismo. Il giudice avrà l’obbligo di acquisire il parere della Procura distrettuale o della Dna, ma mai quello dell’interessato e dei suoi avvocati. Potrà decidere di riportare in carcere o in una “struttura protetta” il condannato o imputato in gravi condizioni di salute, ma potrebbe farlo senza dare ai suoi legali alcuna possibilità di ribattere ai pm.
È un limite gigantesco, che sarà difficile veder corretto in fase di conversione. Certo, si tratta di un provvedimento mirato ai soli casi in cui il differimento o la sostituzione della pena con i domiciliari siano avvenuti per «motivi connessi all’emergenza Covid 19», ma lo sfregio al diritto di difesa resta. A denunciarlo è stata già domenica una delibera dell’Unione Camere penali, che ha parlato di decreto «volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo e al controllo delle Procure distrettuali antimafia». La misura tradise, secondo i penalisti italiani, innanzitutto «la cultura poliziesca» che la anima. «Oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici», prosegue la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza, il provvedimento «prevede il parere degli uffici dell’accusa, ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna», accusa l’Ucpi, «degna della incultura del diritto e della infedeltà alla Costituzione che avvelena il Paese».
Il paradosso è che le nuove norme non hanno disarmato la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra contro Bonafede, il quale oggi interverrà alla Camera. Il ministro non ha potuto far altro che stressare i già esausti Tribunali di sorveglianza e gli stessi uffici di Procura, con un obbligo di rivalutazione mensile e con l’ordine di compiere la prima verifica entro quindici giorni dall’ordinanza. Il magistrato sarà tenuto ad acquisire il parere dell’ufficio inquirente distrettuale o, nel caso dei detenuti al 41 bis, della Procura nazionale antimafia. Dovrà verificare con il Dap se si sono liberati posti nei pochi ospedali attrezzati che si trovino all’interno degli istituti di pena o nelle altrettanto poco capienti “strutture protette”. Dovrà poi sentire il governatore per capire se nella regione in cui si trova il carcere ove riportare il detenuto l’emergenza Covid si sia ridotta. Nel caso delle persone sottoposte a misura cautelare, sarà invece la Procura a dover compiere valutazioni mensili e a presentare al giudice, eventualmente, richiesta di revoca dei domiciliari. Un meccanismo pesante ma inutile. Perché l’emergenza non è finita e non lo sarà per mesi, ma anche perché una parte notevole delle scarcerazioni, e anche quelle, appena quattro, dei detenuti al 41 bis, sono legate a condizioni di salute comunque gravissime, e all’obbligo, imposto dall’articolo 147 del codice penale e dalla Costituzione, di bilanciare le esigenze di sicurezza con il principio di umanità della pena. Le conseguenze materiali del decreto saranno modeste e Bonafede resterà esposto alle accuse della curva forcaiola. A maggior ragione è assurdo non aver previsto di vincolare il giudice ad acquisire anche la valutazione degli avvocati.
La sola attenzione al diritto di difesa sta nell’articolo 4 del decreto, che ha tradotto in norma di legge la delibera con cui il Cnf aveva chiesto e ottenuto dal Dap lo svolgimento in videochiamata, anziché dal vivo, dei colloqui tra detenuti e difensore. Resta comunque salvo il diritto a un colloqui al mese con i familiari anche in tempi di covid. Ma l’impressione è che il governo abbia avuto l’ennesimo cedimento ai torquemada del giustizialismo.