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Undici pagine, 335 righe, delle quali 237 copiate interamente da un’altra sentenza, che nulla ha a che fare con il caso giudicato. È quanto accaduto ad Agostino Pantano, giornalista calabrese, condannato, assieme al direttore Piero Sansonetti, per diffamazione ai danni dell’ex sindaco di Rosarno, Giacomo Francesco Saccomanno, un consigliere comunale della sua maggioranza, Domenico Garruzzo e suo fratello Giovanni. Ma la sentenza, per circa otto pagine, è tale e quale - errori compresi - a quella che ha visto condannare il giornalista di un altro quotidiano, Michele Inserra, al punto che ad un certo punto la giudice - la stessa in entrambi i casi - dimentica di sostituirne il nome. È da questo particolare che Pantano ha la conferma ai dubbi sorti durante la lettura della sentenza, zeppa di imprecisioni. A partire da pagina sette, quando la giudice, dopo aver evidenziato «l’utilità sociale della notizia» pur negando la sussistenza del «principio di verità», fa riferimento all’aver addebitato «un fatto riportato da altri», cosa non avvenuta nel caso di Pantano, che per scrivere quegli articoli si era basato su delibere comunali e altri documenti. Ma le inesattezze continuano a pagina otto, dove la giudice parla di convenuti al plurale - mentre l’unico a costituirsi è stato il giornalista Pantano - ma, soprattutto, li identifica esplicitamente nel giornalista Inserra e nella società editrice del suo giornale. Che nulla c’entrano con gli articoli contestati da Saccomanno e dai Garruzzo e pubblicati sul quotidiano “Cronache del Garantista”, per i quali il giudice onorario del tribunale di Palmi, Emanuela Ruscio, ha stabilito un risarcimento pari a 50mila euro - a fronte dei 500mila richiesti - più 500 euro ad articolo, a carico del solo giornalista. E qui sta la seconda imprecisione che non convince il giornalista, ieri in Cassazione con l’avvocato Giovanni Esposito per un’altra causa, quella che lo vede parte lesa per diffamazione contro Giovanni Pecora. La condanna, spiega il legale che ha lo assistito nel processo civile, Salvino Galluzzo, «ha anche un evidentissimo difetto di motivazione, perché non si dice quali articoli o quali parti di articoli il giudice abbia considerato diffamatori». Ma non solo, le parole usate dal giudice fanno sorgere ulteriori dubbi, «anche questi frutto del copia/ incolla sbagliato - continua Pantano - visto che la controparte era composta da tre attori e non uno, non si spiega chi avrebbe diritto e a quanto, e non è specificato quanti dei sei servizi effettivamente siano considerati diffamatori e per i quali quindi dovrei pagare». Insomma, dice, «una condanna pesante senza un motivato fondamento, viziata da travisamenti e sovrapposizioni».
Il processo, spiega il giornalista, «ha confermato che la famiglia di un consigliere di maggioranza, nel 2005, ha acquistato da un imprenditore e rivenduto un immobile ( il cinema Argo) a prezzo maggiorato al Comune di Rosarno; che il Comune successivamente ha dovuto demolire l'immobile acquistato, in quanto inadeguato dal punto di vista strutturale; che il consigliere comunale Domenico Garruzzo partecipò alla seduta consiliare in cui venne decisa la variazione di bilancio per comprare l’immobile senza astenersi dal voto». Una storia sì vecchia, ma resa attuale, aveva chiarito all’epoca Pantano, dal sequestro di una discarica di inerti nell’ambito dei lavori di ristrutturazione e riqualificazione dell’ex cinema. E arricchita da due novità «i rogiti notarili che attesterebbero che una settimana prima della vendita dell’immobile al Comune, Giovanni Garruzzo ( fratello del consigliere di maggioranza Domenico) l’avrebbe acquistato da un privato», aveva spiegato nei suoi pezzi.
Per Saccomanno e i Garruzzo quegli articoli rappresentavano «una palese, evidente, intollerabile ed ingiustificabile campagna denigratoria dalla assoluta mancanza di verità, interesse pubblico, continenza e razionalità giornalistica», al punto da definire Pantano un «killer su commissione». Ma non solo: i tre avevano anche parlato, nella loro denuncia, di «meschineria», «ignoranza», «voluta non conoscenza», «tentativo fraudolento di informare in modo parziale e non veritiero». La sentenza punirebbe, però, «il diritto di cronaca», contesta il giornalista, che ha già annunciato ricorso in appello. Nella causa, oltre Pantano, sono stati condannati, in contumacia e al pagamento in solido, anche il direttore Sansonetti e la cooperativa Giornalisti Indipendenti, ormai dichiarata fallita.
«A parte la modalità della condanna e di una sentenza in cui le mie ragioni vengono richiamate in maniera didascalica e macchiettistica – conclude Pantano - fa parecchio riflettere la pesante punizione decisa senza alcun calcolo razionale del danno presunto e della tiratura tutto sommato limitata della testata. Una sentenza con pagamento a forfait, della quale informerò ufficialmente il presidente del Tribunale e il Csm perché censurino in maniera formale queste troppo evidenti sbavature che a me sembrano un vero e proprio attentato alle libertà di tutti i cittadini» .