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La cronaca di questa fine estate ci pone ancora una volta difronte all’ennesima manifestazione di quel dominante populismo giudiziario che ha in odio le garanzie e i diritti ancor più se ad esserne portatrici sono le avvocate. È quanto accaduto alla collega di Piacenza, ennesima vittima di esecrabili attacchi social per aver assunto la difesa di un accusato di violenza sessuale, quasi fosse un tradimento al genere femminile.
Non può non evidenziarsi come vi sia una pericolosa subcultura al fondo di tali accadimenti che si nutre di stereotipi che rappresentano sempre più le avvocate, in quanto donne e madri, investite per elezione del ruolo di difensori della vittima e quindi “per natura” distanti dalla possibilità di difendere uomini accusati di particolari reati.
La gogna mediatica che troppo spesso identifica l’accusa con la certezza della responsabilità dell’indagato e che condanna ancor prima che sia emessa una sentenza alimenta quotidianamente l’odio social nei confronti di tutte quelle avvocate che assolvono al loro ruolo di difensori con la medesima professionalità e il medesimo impegno sia che tutelino imputati o vittime, nella convinzione che non ci siano interessi più meritevoli rispetto ad altri.
E se poi l’accusato viene assolto si grida allo scandalo, si evocano i fantasmi di vecchi pregiudizi e nuovi stereotipi sessisti in grado di condizionare i giudici di primo grado - sempre più spesso di genere femminile - tanto da indurli ad assolvere mariti e compagni violenti o molesti anche se platealmente colpevoli. Non viene neppure presa in considerazione la possibilità che in quel singolo processo, per quella particolare vicenda gli elementi di prova a carico dell’accusato non fossero tali da portare quei giudici a ritenere provata la responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.
Appartiene alla cultura del diritto penale liberale l’idea che il diritto a un nuovo processo e a una nuova valutazione delle prove sia riservata al condannato. Proporre ancora l’idea che la assoluzione di primo grado sia il frutto di malmostosi ideologismi anziché di un percorso probatorio illuminato dalla regola del ragionevole dubbio è posizione non solo lontana dal sistema delle garanzie ma destinata ad alimentare un’idea distorta del processo quale strumento di vendetta individuale e sociale. È incredibile che simili posizioni, tipiche della vulgata populista, siano condivise anche da qualche magistrato che vorrebbe dividere gli avvocati in base agli interessi che tutelano: le avvocate buone stanno con i centri antiviolenza, mentre le avvocate delle camere penali difendono i presunti violentatori. La realtà è che la difesa non è mai una questione di genere e il diritto di difesa non consente differenze di genere e di categorie.
Si è avvocati a prescindere dal sesso, a prescindere dal titolo del reato e a prescindere dal cliente che si assiste, sia esso imputato o persona offesa.
Si è avvocati e basta.
D’altro canto, non è questo il modo di affrontare il fenomeno ingravescente come quello della violenza sulle donne che ha radici sociali e culturali profonde e che non ha certo trovato argine nei recenti interventi legislativi, securitari ed emergenziali.
La convinzione che nessun processo per nessun titolo di reato giustifichi manifestazioni di insofferenza nei confronti dei principi costituzionali e delle garanzie processuali proprie dello Stato di diritto, è il pilastro del ragionamento intorno all’idea di parità in cui le avvocate Ucpi credono e si riconoscono, respingendo ogni deplorevole attacco al diritto di difesa.
L’Osservatorio Pari Opportunità Ucpi è sempre stato, e sarà sempre a fianco delle avvocate e delle donne nella convinzione che pari opportunità significa tutela dei diritti fondamentali, diritti che debbono essere garantiti sempre a tutte e a tutti.
Ed il garantismo non è mai una questione di genere, così come la difesa non è una questione di genere.
GIULIA BOCCASSI E SABRINA VIVIANI
RESPONSABILI OSSERVATORIO PARI OPPORTUNITÀ UCPI