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Una piattaforma per le pari opportunità tra gli agenti della polizia penitenziaria. È stata presentata dalla Fp Cgil durante un convegno nel carcere di San Vittore a Milano dal titolo "Oltre le sbarre, il lavoro delle donne in divisa". Come vive una donna che lavora in un carcere?
Con quali condizioni di lavoro ha a che fare ogni giorno? Cosa vuol dire lavorare in un ambiente che negli anni è sempre stato caratterizzato da una presenza prettamente maschile? Esiste la tanto decantata parità di genere nel mondo del lavoro e, in particolare, in quello delle donne in divisa? Questi gli interrogativi dai quali è partita la Cgil e che l’ha portata a costruire un'idea di parità, umana e professionale. «Purtroppo viviamo in un Paese in cui – spiegano i sindacalisti-, più che nel resto dell'Europa, si scontano importanti disparità di condizioni tra i generi.
Assistiamo sempre più spesso, negli ultimi mesi, a iniziative della politica che, di fatto, minano le libertà e i diritti individuali delle donne, ad un arretramento culturale che rafforza un modello di società patriarcale». Un modo di pensare che si riversa inevitabilmente nel mondo del lavoro, tutto. A partire dalle retribuzioni. Secondo gli ultimi dati Istat, relativi al 2018, lo scarto di retribuzioni tra uomini e donne sfiora il 30%. La Cgil cita anche il discorso della maternità, che diventa di fatto inconveniente per il datore di lavoro.
Una situazione che si riversa anche nei penitenziari, dove non è difficile immaginare quanto possa essere enormemente più complicato per tutte quelle donne che trascorrono gran parte della propria giornata, ogni giorno, in ambienti di lavoro in cui la presenza maschile è predominante. La presenza di donne nel corpo di polizia penitenziaria è una novità introdotta appena 29 anni fa con la Legge 395 del 1990 e rappresenta oggi il 9% del personale tra gli agenti ( il 7% tra i sovraintendenti e il 12% tra gli ispettori). Questa è una conseguenza anche della normativa vigente secondo cui «il personale del corpo di polizia penitenziaria da adibire ai servizi in Istituto all'interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti». Il sindacato quindi sottolinea che se si considera una popolazione carceraria costituita da circa 55 mila detenuti uomini e da sole 2.228 detenute donne ( dati del 2017), va da sé che la presenza maschile è quasi esclusiva.
Ma è davvero quella vigente l'unica modalità possibile?
Eppure questo non vale per tutte le legislazioni. La Cgil rivela che ci sono infatti esperienze europee ( come quelle di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Francia e Germania) in cui le donne della Polizia Penitenziaria sono ammesse anche nelle sezioni maschili, salvo che per le operazioni di perquisizione dei detenuti.
Questa esperienza insegna che aumentare il numero di donne nel corpo di Polizia Penitenziaria, se fatto con criterio, è possibile.
Poi ci sono le condizioni di lavoro. «Un ambiente storicamente maschile – spiega la Cgil - ha mantenuto in sé una serie di aspetti organizzativi e pratici, oltre che psicologici e umani, che rendono difficile il clima per le donne poliziotte».
Nelle carceri, per esempio, non ci sono spogliatoi, bagni, armadietti e stanze per il pernottamento che siano riservati alle sole donne. Sono tanti gli aspetti che fino ad oggi non sono stati curati e che il sindacato vuole porre invece la giusta attenzione. «Siamo convinti - commenta il sindacato - che una maggiore presenza femminile in ambienti così chiusi e delicati possa dare un contributo importante, rendendoli più sereni e vivibili.
Non possiamo fare passi indietro, dobbiamo procedere in avanti, in direzione di una parità di opportunità tra uomini e donne che è da ritenersi civile».