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«È doveroso premettere che il medesimo ( pentito Vito Lo Forte, ndr), prima di tale interrogatorio, era stato più volte sottoposto a colloqui investigativi sul medesimo tema, sempre da parte di un magistrato della Dna, così come va rimarcato che egli, nei verbali illustrativi e negli interrogatori precedentemente resi alle varie Ag, non aveva mai fatto cenno, seppur genericamente, alle circostanze di cui adesso parlava in modo così dettagliato». È uno dei tanti passaggi della richiesta di archiviazione da parte della procura di Catania, in merito alla vicenda di Giovanni Aiello, etichettato come “Faccia da mostro”. In sostanza, così come denunciato anche dall’ennesima richiesta di archiviazione da parte della procura di Caltanissetta, i pentiti hanno cominciato a ricordare dettagli, solo dopo esser stati sentiti dall’allora magistrato della Dna. Un'invasione di campo, a detta dei magistrati delle due procure, che ha creato grossi problemi. Il caso era arrivato al Csm. Il magistrato è Gianfranco Donadio, l’anno scorso intervistato in prima serata dal programma Atlantide su La Sette a discettare delle stragi ( veniva pubblicizzato il libro di Lirio Abbate) dando molto credito a Nino Lo Giudice, altro pentito che veniva ascoltato da lui stesso, mentre era però sotto il vaglio delle procure.
Il nuovo libro “Lobby e Logge”, di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, dà una notizia fino ad oggi sconosciuta. Non solo il Csm ha assolto il magistrato Donadio dai fatti denunciati dalle procure, ovvero che andava nelle carceri interrogando taluni pentiti mentre però erano al vaglio di Catania e Caltanissetta, ma spiega anche il motivo. Palamara precisa che Donadio agiva, o almeno era logico supporlo, per conto di Pietro Grasso, all’epoca dei fatti suo capo alla Direzione nazionale antimafia e in quel momento già presidente del Senato. «Si creò – svela Palamara quindi un conflitto tra i procuratori ordinari, che accusavano Donadio di invasione di campo non autorizzata, e la seconda carica dello Stato, con il Csm in mezzo a dover dirimere la questione oggettivamente anomala».
Sempre Palamara, sottolinea: «Grasso non ama gli schizzi e per noi al Csm era una pratica molto delicata, perché Donadio sosteneva che quello che aveva fatto era condiviso da Grasso. Un fatto grave, sul quale anche la procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un’inchiesta». Come finì? Palamara rivela che il Csm ha convocato Grasso, il quale avrebbe spiegato che non si era trattato di una inchiesta parallela per chissà quali fini, ma di prerogative della Direzione nazionale antimafia che in qualche modo consentivano queste cose, e pure di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Il Csm non ha obiettato e Donadio fu salvato. Il massimo che è stato fatto è stato mandare il magistrato a svolgere il suo servizio a Lagonegro. A detta di Palamara, condannare Donadio avrebbe significato condannare Grasso. Sarebbe stato questo il motivo per cui decisero di archiviare la pratica. La vicenda che era stata presa in esame, poi finita nel nulla, rivela che la magistratura ha grossi problemi interni. E a rimetterci sono i magistrati seri. La denuncia è chiara e si legge nelle richieste di archiviazione sulla vicenda di “Faccia da mostro”, plurindagato ma mai inquisito perché non è mai stato trovato nulla. Un uomo che è morto da qualche anno, ma nell’immaginario collettivo - grazie anche ai mass media – rimane come il Killer al servizio della mafia e servizi segreti deviati che avrebbe partecipato a diversi omicidi e perfino alle stragi. I pentiti che lo hanno accusato, risultano però - grazie al vaglio certosino delle procure di allora – privi di attendibilità. Scrive nero su bianco il procuratore di Catania nella richiesta di archiviazione: «Simili dettagliate dichiarazioni, del tutto inedite, ingenerano fortissimi dubbi quanto alla genuinità ed all’attendibilità, soprattutto perché risultano precedute da più di un colloquio investigativo». E parliamo del colloquio intrapreso da Donadio per conto della Dna di allora.
Parliamo del periodo che va dal 2013 al 2015 e nella richiesta di archiviazione, la procura di Catania ha inserito una tabella per far comprendere la dimensione del problema. «Come si può notare – scrive la procura -, nonostante fossero state già avviate le indagini dalle Ag competenti, venivano svolti colloqui investigativi con i medesimi collaboratori che poi avrebbero dovuto essere escussi ( o che lo erano già stati) nell’ambito dei procedimenti iscritti in merito agli stessi fatti». Cosa ha generato tutto ciò? Nero su bianco, la procura scrive: «Non può non rivelarsi in proposito come le valutazioni in ordine all’attendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia e dei dichiaranti sopra indicati, escussi nel corso delle indagini nel procedimento iscritto contro Giovanni Aiello (“faccia da mostro”, ndr), risultino gravemente compromessi alla luce della quasi contemporanea effettuazione dei colloqui investigativi sopra indicati».
Ora, grazie alla rivelazione di Palamara, sappiamo che per il Csm è stato tutto lecito. Il magistrato Donadio poteva farlo e i suoi colloqui investigativi rientravano nelle prerogative dalla Dna. Non solo. La commissione parlamentare antimafia lo ha premiato prendendolo come consulente per le inchieste sul fenomeno di mafia. Il Sistema, nel nostro Paese, funziona così: la stessa corporazione che non ha dato seguito agli elementi ( utili per aprire un’istruttoria) forniti da Fiammetta e Lucia Borsellino, le figlie del giudice ucciso in Via D’Amelio.