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«Il grido di allarme di Vincenzo Morabito e l’indifferenza della dottoressa Longo». Così il Gip, accogliendo la richiesta dei domiciliari per l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, ha scritto in uno dei tanti capi d’accusa nei suoi confronti. Tutti da verificare, perché almeno sentendo il suo avvocato difensore, emerge che il suo modus operandi ( il non eseguire pedissequamente le disposizioni delle circolari visto la complessità del carcere) era alla luce del sole, tanto da ricevere l’avvallo del Dap.
Dall’ordinanza emerge però un’altra vicenda, nel passato affrontata dalle pagine di questo giornale, che riguarda la morte del 46enne Maurilio Pio Morabito. Una storia tragica che i pm reggini, per trovare consistenza nelle loro accuse, fanno riemergere colpevolizzando di indifferenza la ex direttrice Longo. Ma nella loro argomentazione, alla fine danno nuovi spunti per riaprire il caso chiuso come suicidio.
Ufficialmente Maurilio Morabito si sarebbe suicidato il 29 Aprile del 2016 nel carcere calabrese di Paola. Un tragico evento che fu messo in luce grazie all’attivismo del calabrese Emilio Quintieri, da sempre in prima linea per i diritti dei detenuti. Morabito si trovava ristretto in una cella “liscia” nel carcere di Paola quando è stato ritrovato privo di vita. Metterlo nudo in isolamento, con a disposizione solo una coperta e un secchio per gli escrementi, non era proprio il massimo per garantire l’incolumità del detenuto. Infatti non è servito a nulla, se non ad aggravare il problema. Morabito doveva scontare una pena definitiva di quattro mesi di reclusione per un’evasione dai domiciliari denunciata dieci anni prima, quando era stato arrestato per detenzione di stupefacenti e a causa di un malessere si era allontanato da casa per andare dal medico senza avvisare l’autorità giudiziaria. A parte lo psichiatra del carcere, nessuno tra parenti, amici e detenuti ha mai confermato che Maurilio soffrisse di una forte depressione e che voleva togliersi la vita. Anzi. Temeva di essere ucciso e non ne faceva mistero. Ed è questo il punto cruciale che ritroviamo poi scritto nell’ordinanza degli arresti domiciliari nei confronti della direttrice Maria Carmela Longo, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il motivo? Non avrebbe raccolto la denuncia esposta dal padre di Maurilio, Vincenzo Morabito, durante un colloquio avvenuto con lei.
Per comprendere meglio la vicenda, ripercorriamo la cronologia degli eventi. Maurilio viene arrestato il primo marzo del 2016 e tradotto nel carcere calabrese di Arghillà. Durante il primo periodo di permanenza viene allocato alla camera detentiva numero 18 del primo piano del reparto Apollo, in stanza multipla con altri cinque detenuti. In quel momento Morabito fa una denuncia ben precisa, che poi il padre rievoca durante il colloquio con la direttrice Longo. I compagni di cella gli avrebbero chiesto un favore, ma lui avrebbe rifiutato. Ed è lì che iniziò il calvario, perché i suoi compagni di cella avrebbero tentato di ucciderlo. Tutto questo lo raccontò al padre, facendo anche i nomi dei detenuti. Dopo quel presunto tragico evento, il 29 marzo, sempre nel carcere di Arghillà, viene posto – su ordine della Longo (durante il colloquio con il padre è lei stessa a ricordarlo) - in una cella singola per proteggere la sua incolumità fino al primo aprile, per poi trasferirlo nel carcere di Paola dove in seguito si sarebbe tolto la vita. Durante il colloquio, il padre di Maurilio afferma alla Longo che il progetto di uccidere il figlio iniziò durante la sua detenzione ad Arghillà. Nel prosieguo dello sfogo, l’uomo espone alla Longo tutte le anomalie della vicenda: il rifiuto, mai registrato prima, del figlio di recarsi al colloquio con i familiari; le condizioni in cui gli fu consegnato, dopo cinque giorni del decesso, il corpo (sporco) del figlio; le caratteristiche della cella che, sempre secondo il padre, avrebbero reso impossibile l’impiccagione e il tardivo esperimento dell’esame autoptico.
In conclusione, il padre di Morabito, dopo aver esposto i fatti, sciorina alla Longo i nomi dei detenuti che a suo dire, avrebbero sentenziato la morte del figlio. D’altronde, la stessa direttrice, in un dialogo intercettato con un agente penitenziario, dice espressamente che secondo lei non si tratta di un suicidio «perché a Paola… ci sono molti reggini… che abbiamo mandato». Quindi, come si legge nell’ordinanza per gli arresti domiciliari, alcuni detenuti reggini che sono ristretti nel carcere di Paola si sarebbero occupati dell’uccisione di Morabito per i fatti verificatosi presso il carcere di Arghillà. Secondo il Gip, la Longo – una volta appreso i nomi da parte del padre di Morabito – avrebbe dovuto notiziare i nuovi elementi immediatamente all’autorità giudiziaria con una relazione di servizio riservata. Secondo l’accusa, pur essendo vero il fatto che l’autorità giudiziaria stava già compiendo delle indagini, quanto il padre ha riferito alla direttrice sono elementi nuovi. Ora, se la direttrice abbia commesso un reato non riferendo all’AG questi nuovi elementi, sarà un giudice a stabilirlo. Anche perché, per via di ipotesi, la Longo potrebbe aver dato per scontato che il padre lo abbia già riferito alle autorità competenti. Oppure, più semplicemente, ha preso atto di quello che sostanzialmente era: uno sfogo.
Il dato oggettivo è che una procura – per quanto riguarda lo strano decesso del detenuto - ritiene molto valido il movente, la dinamica del primo tentativo di omicidio e l’identità dei responsabili. Alla luce di tutto ciò si riapriranno le indagini sulla morte di Maurilio Morabito liquidata troppo frettolosamente come suicidio?