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Qualche giorno fa c’è voluta la solidarietà da parte di tutte le detenute che, tramite diverse ore di battitura, sono riuscite a far trasportare Rosa Zagari in ospedale. Dolori lancinanti, non riusciva a stare né in piedi né seduta in carrozzina, una sofferenza abnorme che porta con sé da ormai più di un anno. Dopo poche ore è stata riporta in cella nel carcere di Messina.
La sua è una storia ampiamente riportata da Il Dubbio, fin da quando cadde da quella maledetta doccia del carcere di Reggio Calabria che le provocò una grave lesione alle vertebre, con tanto di frattura all’anca. Da lì, il calvario che diventa sempre più insostenibile. Che l’assistenza sanitaria nelle patrie galere sia una utopia, lo ha ammesso anche recentemente il Dap tramite le sue nuove linee guida. Rosa non è nemmeno una spietata criminale, la sua unica colpa è stata quella di aver amato – e quindi protetto - l’ex latitante Ernesto Fazzalari di Taurianova, catturato nel 2016, il quale era considerato il ricercato più pericoloso dopo l’imprendibile Matteo Messina Denaro. Grazie all’interessamento dell’associazione Yairaiha Onlus - la quale si è attivata fin dal luglio scorso scrivendo al Garante nazionale delle persone private della libertà, a quello regionale, al ministro della Giustizia e al magistrato di sorveglianza -, Rosa Zagari era stata trasferita nel carcere di Messina per ricevere cure adeguate. Ma nulla da fare, le sue condizioni non sono cambiate. L’unico risultato avuto, inaccettabile in un paese civile, è che la frattura scomposta dell’anca ormai si è calcificata in maniera errata. «L’immobilismo forzato dei mesi a seguire a causa del busto – denuncia Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus -, fece sì che l’anca fratturata si calcificasse in maniera scomposta e, probabilmente, questa è una concausa delle prolungate sofferenze che sta subendo questa donna senza essere nemmeno creduta dal personale sanitario e penitenziario». Perché non sarebbe stata creduta? Rosa stessa, tramite una lettera inviata al fratello, racconta un episodio avvenuto il 16 gennaio scorso: «Hanno chiamato il dottore perché ero piegata in due e mi hanno fatto una puntura di “toradol”, quando è arrivato il medico di guardia si è messo a urlare sia con l’assistente sia con il medico di turno perché “era stato disturbato”. È intervenuta allora la mia compagna dicendogliene quattro e lui ha proposto di lasciarmi su una barella lì nel corridoio (dove peraltro già ero e non potevo stare perché reparto di media sicurezza) fino a che non mi passasse il dolore, o in lavanderia che è una stanza fatiscente e tutta aperta. L’assistente ha risposto di no ad entrambe le proposte, mentre la mia compagna di cella è intervenuta dicendo che mi avrebbero portato loro in sezione». Rosa Zagari continua nel suo racconto drammatico: «In quanto alle cure che mi ha prescritto il neurologo, non le sto facendo perché, anche se risultano in cartella clinica, l’infermiera mi ha informato che loro non ce l’hanno, hanno solo la “Lirica” da 75 mg mentre quella che mi ha prescritto sono da 25 mg e le devo comperare a spese mie, ma ci vorrà un mese prima di averle. Per quanto riguarda la finta fisioterapia che mi stavano facendo, ora non me la fanno più il lunedì ma solo martedì e mercoledì, in pratica 20 minuti di tens. Per pararsi le spalle mi avevano fatto due sedute di magnetoterapia e solo quando gli ho detto che il giorno prima non ero andata perché stavo male ed avevo pure il ciclo mi hanno detto che con il ciclo la magnetoterapia non si può fare, ma a me la avevano già fatta fare durante il ciclo nei mesi precedenti senza avvisarmi».L’associazione Yairaiha Onlus ha ricevuto riassicurazioni dal Dap circa lo stato di salute di Rosa Zagari. Ma da quando traspare dai suoi racconti e l’ultimo trasporto in ospedale a causa dei suoi dolori, sembra che tutto sia rimasto così com’è. Una donna, Rosita, di 42 anni che sta scontando una doppia, tripla pena. Eppure lo Stato di Diritto contempla la possibilità di una pena alternativa, soprattutto quando emerge una incompatibilità con l’ambiente carcerario che sa essere feroce anche con chi ha solo la colpa di essere un familiare del ristretto. Il pensiero va infatti alla madre di Rosita che, nonostante la malattia, ha combattuto per la figlia. Aveva detto che si sarebbe lasciata morire se le autorità non avessero preso provvedimenti. È stata purtroppo di parola.