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Due indagini per concorso esterno, due archiviazioni e un’assoluzione. Ma il «calvario» giudiziario di Giuseppe La Mastra, maresciallo dei carabinieri ora in servizio al nucleo radiomobile di Palagonia ( Ct), è lontano dalla parola fine. A raccontarlo è lui stesso, in un esposto indirizzato al procuratore generale della Cassazione, al Csm e al Presidente della Repubblica e firmato anche dal suo avvocato, Giuseppe Lipera, col quale si chiede a chi di dovere di verificare il comportamento dei magistrati in quello che viene considerato un «inspiegabile accanimento giudiziario» . La Mastra, nell’arma dal 1991, negli ultimi 10 anni è stato comandante della stazione di Catenanuova, Comune ad alta intensità delinquenziale. «Ho sempre svolto le mie delicatissime funzioni con il massimo della professionalità, sprezzo del pericolo, dedizione assoluta alla legge e alla magistratura», racconta il maresciallo. Che si sente stretto nella morsa di una giustizia ingiusta, fatta di accuse pesantissime. «L’onta dell’arresto, una lunga e inspiegabile indagine per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, poi sfociata in archiviazione, ed un processo dinanzi al Tribunale di Enna: ecco ciò che è stato riservato ad un servitore dello Stato come me», afferma La Mastra. È un collaboratore di giustizia a tirare in ballo La Mastra, accusandolo di essere vicino al clan Cappello. Una dichiarazione che, a maggio 2012, sfocia in un’indagine della Dda di Caltanissetta per concorso esterno e in una perquisizione al comando dei carabinieri da lui diretto. «Purtroppo la Dda di Caltanissetta non ha fatto chiarezza in tempi ragionevoli: non solo ho dovuto convivere per oltre due anni con questa terribile ed infondata accusa, ma, difficile a credersi, dopo una prima archiviazione, ha dovuto assistere ad una inspiegabile riapertura di indagini, basata su cosa non è stato dato sapere», racconta il maresciallo. Anche la seconda indagine si chiude con un’archiviazione, giungendo alla conclusione che La Mastra non ha mai favorito la mafia. Ma durante la perquisizione vengono trovate nell’armadio destinato ai reperti di reato alcune cartucce ed alcune munizioni. Il comandante viene così arrestato e sospeso dal servizio, finendo a processo davanti al Tribunale di Enna. L’accusa è di aver detenuto illegalmente quelle munizioni e di aver rifiutato atti del suo ufficio in relazione alle stesse. Il processo si è chiuso ad ottobre, con un coro unanime: La Mastra non ha commesso quel reato. Ne è convinto il pm Augusto Rio, che ha chiesto l’assoluzione, e ne sono convinti i giudici, che hanno ritenuto infondata l’accusa. Ma il calvario non è finito. Il sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta, Fabio D’Anna, ha infatti proposto appello, riaprendo «la mia personalissima quanto immeritata “via crucis” giudiziaria» . La Mastra parla di «stranezze» nell’atto di impugnazione proposto dalla Procura generale di Caltanissetta. «Non è un appello come tutti gli altri», dice il militare. Viene chiesta la rinnovazione dell’istruttoria, ritenendo insufficiente l’attività della Procura di Enna nel processo di primo grado. Dall’accusa di concorso esterno alla fine del processo sono passati intanto cinque anni. «Mi sento un vero e proprio perseguitato - spiega Questo è francamente troppo, specie per un maresciallo dei carabinieri che, per altro, in questi anni, ha dovuto convivere con l’atroce e prematura scomparsa della propria moglie, portata via da una lunga ed invincibile malattia». Nei motivi d’appello, la Procura generale accusa i giudici di primo grado di essersi appiattiti sulle dichiarazioni di La Mastra durante il processo. Il Tribunale ha evidenziato che le munizioni erano nell’armadio destinato ai reperti di reato, punto principale, secondo i giudici, per ritenere la non configurabilità del reato, che escluderebbe la detenzione delle munizioni a titolo personale. Quella stanza, inoltre, durante i giorni in cui La Mastra era assente, era a disposizione degli altri militari, per cui «se solo ci fosse stato un fine illecito non le avrei mai custodite in quell’armadietto ed in quella stanza», ha spiegato lo stesso maresciallo. Che lasciava la chiave in ufficio, allontanandosi spesso a causa della malattia della moglie. «La detenzione delle munizioni da parte del La Mastra non assume i caratteri dell’illegalità - si legge nella motivazione - tale detenzione, infatti, si inquadra nell’esercizio delle funzioni rimesse al La Mastra».
Munizioni custodite non a titolo personale «ma per ragioni di ufficio», nella disponibilità di «chiunque avesse avuto titolo per richiederle, visionarle o prelevarle». Non sussiste, per i giudici, nemmeno l’accusa di mancata adozione di atti d’ufficio, dato che nessun accertamento è stato fatto per verificare l’effettiva mancanza di atti giustificativi della detenzione delle cartucce. Inoltre nel corso delle indagini furono man mano rinvenuti tutti gli atti pertinenti a ciascuna arma, con il conseguente dissequestro. Posizione non condivisa dalla procura generale, che invece escluderebbe l’accesso a terzi a quella stanza se non per consultare atti d’ufficio. Per La Mastra si tratta invece di una sorta di «persecuzione giudiziaria», di «fango» che ha portato l’uomo a dubitare delle «ragioni che stanno alla base di tale inspiegabile accanimento». Una vicenda che gli è costata due giorni nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, due mesi di arresti domiciliari a Castel di Iudica e, dopo la scarcerazione, anche il divieto di dimora in Catenanuova. «Questa storia non ci convince - commenta l’avvocato Lipera - probabilmente qualcuno sta tentando di riparare alla brutta figura fatta con le indagini a suo carico. Questa impugnazione non si comprende: non c’è parte civile, c’è un’assoluzione su conforme richiesta del pm. Hanno distrutto la sua vita: la sospensione dal servizio è durata diversi anni, con conseguenze economiche anche rilevanti e il blocco della carriera. Fosse capitato ad un magistrato il processo sarebbe stato molto più veloce. Invece è un carabiniere e deve passare le pene dell’inferno».