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Armati fino ai denti, in tre che bloccano una persona distesa sul pavimento, gruppo di divise in assetto antisommossa. No, non stiamo parlando di un filmato che documenta un'azione militare in una zona di emergenza, ma del nuovo calendario istituzionale della Polizia Penitenziaria. Che bisogno c'era di rappresentarla esclusivamente attraverso la loro forza muscolare, e soprattutto senza che appaia il carcere, nemmeno sullo sfondo?
Il calendario per il 2025, presentato mercoledì scorso nell'aula magna della Corte di Cassazione, solleva interrogativi profondi sulla rappresentazione della realtà penitenziaria italiana. Nonostante le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che sottolinea la capacità di «miscelare continuamente l'uso legittimo della forza con il trattamento rieducativo dei detenuti», il prodotto finale appare come un manifesto unilaterale e fortemente militarizzato.
Le immagini selezionate per il calendario raccontano esclusivamente un volto repressivo della Polizia Penitenziaria. Agenti in assetto antisommossa, operatori che bloccano con una modalità quasi schiacciante una persona distesa sul pavimento, uomini in passamontagna armati: l'unica narrazione sembra essere quella dell'emergenza e del controllo.
Per l'edizione di quest'anno si è scelto il tema della «formazione» per «evidenziare l'impegno messo dall'Amministrazione penitenziaria e dal Corpo di Polizia penitenziaria in questi ultimi due anni nel darsi solide basi di addestramento», ha spiegato il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo durante la presentazione. Pur riconoscendo l'importanza della preparazione professionale, questa dichiarazione stride con l'impostazione visiva del calendario.
«L'uso difensivo e contenitivo della forza e l'impiego delle migliori tecnologie sono ciò che consente al nostro Corpo di polizia di eccellere in Europa, per esempio per il Laboratorio per la banca dati del dna o di partecipare con crescente puntualità alle più importanti investigazioni anche di criminalità organizzata», ha aggiunto Russo che non ha mancato di ricordare l'operazione che ha portato all'arresto di 14 persone collegate all'evasione del boss Raduano dal carcere di Nuoro.
Se l'intento era valorizzare la formazione e la professionalità, il calendario sembra paradossalmente smentire questo obiettivo. Le immagini selezionate appaiono più concentrate su una rappresentazione muscolare e intimidatoria, piuttosto che illustrare le reali competenze e la complessità del lavoro degli agenti penitenziari. L'eccellenza tecnologica e investigativa di cui parla Russo rimane quasi del tutto assente, ed emerge una narrazione che privilegia l'aspetto repressivo.
Quel che più colpisce è l'assenza totale del carcere come luogo di vita quotidiana. Nessuna foto documenta l'ambiente penitenziario, le celle, i corridoi, gli spazi comuni. Spariscono del tutto quegli agenti che ogni giorno, nonostante condizioni difficilissime di sovraffollamento, svolgono un lavoro complesso di custodia, mediazione e supporto umano. Il sottosegretario Delmastro Delle Vedove ha definito questo calendario come uno sguardo su un Corpo «lontano dai riflettori, eppure prezioso nella lotta alla criminalità». Eppure le immagini sembrano suggerire più una guerra che un servizio pubblico, più una repressione che un percorso di recupero e reinserimento.
La scelta comunicativa appare profondamente sbagliata. Riduce il lavoro dei 37mila appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria a mere funzioni di contenimento fisico, cancellando la complessità, la professionalità e l'umanità che ogni giorno questi operatori sono chiamati a esprimere.
Un calendario dovrebbe raccontare, documentare, far comprendere. Questo invece nasconde, semplifica, alimenta paure. Soprattutto in questo periodo dove siamo giunti a un numero spaventoso di suicidi, sovraffollamento che aggrava sempre di più. Dove, anche gli agenti penitenziari stessi si sono suicidati. E si trovano a dover far fronte alla tensione, e infatti sono in aumento gli eventi critici. Autolesionismo, sciopero della fame, proteste. Un'occasione persa per restituire dignità a un lavoro difficile e fondamentale per la tenuta democratica del nostro sistema penitenziario.