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«Della strage di via Fani, del sequestro e poi dell’omicidio di Aldo Moro si raccontano ancora fantasiosi teoremi, la verità è che sappiamo tutto: furono le Brigate Rosse e nessun altro. Per lo stato in cui erano le nostre forze dell’ordine, non si sarebbe potuto fare di più per impedire l’agguato, ma da quel momento l’Italia cambiò, e cambiammo anche noi che lo Stato dovevamo difenderlo». Il generale Mario Mori ne ha parlato ieri a Modena, a quarant’anni esatti dal 16 marzo del 1978 che sfigurò il volto del Paese, lo stesso giorno in cui venne nominato comandante della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo di Roma. La sua presenza insieme a quella del colonnello Giuseppe De Donno ( entrambi assolti in due processi per presunta ritardata perquisizione nel covo di Totò Rina e per presunto favoreggiamento a Bernardo Provenzano e ancora imputati in un terzo filone, quello della cosiddetta “trattativa Stato- mafia”), invitati dalla Camera Penale Carl’Alberto Perroux di Modena come relatori al seminario “Criminalità organiz- zata e terrorismo: tra prevenzione, repressione e diritti di libertà”, ha suscitato polemica. «Hanno definito questo invito stupefacente, inopportuno e preoccupante», ha detto il presidente della Camera Penale, Guido Sola, «Abbiamo subito pressioni per annullare il convegno, ma conosciamo le logiche dei professionisti dell’Antimafia e la migliore risposta è la presenza in sala di 280 cittadini, sentinelle della libertà. La presunzione di innocenza non è inutile orpello e ai nostri giovani vogliamo mostrare la differenza tra fare gli avvocati ed essere avvocati, avanguardia della cultura del garantismo e della difesa dei diritti».
Prima del dibattito, è stato proiettato docufilm “Mario Mori un’Italia a testa alta”, in cui si racconta la storia professionale di Mori, dall’antiterrorismo al fianco del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ( con cui sgominò la colonna romana delle Brigate Rosse), alla lotta alla mafia al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino alla cattura di Totò Riina e la successiva vicenda giudiziaria. «Proprio l’arresto di Riina, il mio più grande successo professionale, è il mio più grande errore: non ebbi il coraggio di proseguire il pedinamento per altri 5 chilometri prima di mettere in moto l’operazione. Se lo avessi fatto, forse avremmo preso tutti i capi mandamento. La dottrina Dalla Chiesa diceva che il latitante è la gallina dalle uova d’oro: bisogna seguirlo fino alle radici, altrimenti si fa come il contadino in una vigna, si potano e i rami ricrescono», ha raccontato. Proprio quella cattura, nel 1993, gli portò i guai giudiziari che ancora affronta: «Ma io sono un agonista, voglio vincere e sono sicuro della mia posizione. Del resto, ho un vantaggio: da sempre tengo un’agenda su cui annoto ciò che faccio ogni giorno, non temo alcun pentito. Questo ennesimo processo mi sta tenendo giovane, lucido e attento». E proprio due giorni fa era a Palermo, per assistere all’ennesima udienza del processo a suo carico, durante la quale il suo difensore, Basilio Milio, ha ripetuto: «Oggi si rifà lo stesso processo, pur dopo due sentenze di assoluzione, perché la Procura di Palermo vuole la testa del Generale Mori».
Da investigatori, Mori e De Donno hanno spiegato le tecniche con cui hanno condotto le indagini, a partire dall’uso degli agenti sotto copertura nelle indagini sulla camorra: «Non agenti provocatori, che non sono consentiti dalla legge e che sono uno strumento pericoloso perchè indurrebbero un soggetto a commettere un reato, invece che limitarsi a scoprirlo». E anche sull’uso dei pentiti nelle indagini per terrorismo e mafia Mori ha sottolineato: «Quando fermammo il brigatista Patrizio Peci eravamo già in possesso di informazioni per riscontrare la validità delle sue confessioni. Oggi, spesso gli investigatori danno credito ai pentiti senza questi elementi, correndo il rischio di subire manipolazioni». Infine, da ex direttore del Sisde ( uno dei servizi segreti italiani, che Mori diresse dal 2001 al 2006), ha analizzato il fenomeno del terrorismo di matrice islamica, «che in Italia non ha ancora colpito non solo per ragioni storiche e del tipo di immigrazione presente nel nostro Paese, ma anche perché i nostri servizi di prevenzione e forze dell’ordine sono tra i migliori in Europa, addestrati proprio a partire dal sequestro Moro». Infine Mori ha tracciato un filo comune tra tutte le forme di terrorismo: «Per combatterle bisogna capirle, e per capirle bisogna partire dalla loro cultura».