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Il colpo è micidiale. L’indagine avviata dalle Procure di Palermo e Roma e l’accusa di corruzione nei confronti di Armando Siri si abbattono con una violenza devastante sull’alleanza di governo. La misura della deflagrazione è nelle parole di un altro sottosegretario leghista: Jacopo Morrone, che sta alla Giustizia. Notoriamente restio a valutazioni su inchieste in corso, com’è giusto per chi ricopra incarichi a via Arenula. Stavolta però Morrone non può trattenersi: «C’è un procedimento mediatico che corre assai più di quello giudiziario». Vero. Sui media Siri è già condannato. Eppure, qualcosa incrina la macchina del fango all’ora del tè. Quando cioè arrivano sui terminali di tutte le redazioni alcuni lanci d’agenzia, firmati dai cronisti che seguono la giudiziaria nella Capitale. Come capita quando l’inchiesta assume una risonanza abnorme, sono gli stessi magistrati ad affidare alla professionalità dei cronisti poche informazioni, non virgolettate, sullo sviluppo delle indagini. Ebbene queste note, non ufficiali ma molto attendibili, recitano: “All’esame di chi indaga ci sono anche i flussi bancari ( dei conti della famiglia di Paolo Arata, l’ex parlamentare, esperto di politiche ambientali, che avrebbe pagato la tangente a Siri, ndr) la cui analisi servirà ad accertare, stando alla conversazione ( intercettata) del settembre 2018 tra padre e figlio ( Paolo e Franco Arata, ndr), se è vero o no che 30mila euro siano usciti dai conti correnti di famiglia per essere consegnati ad Armando Siri”.
Cioè: ancora non si sa se quella mazzetta esiste. Non si sa, e lo lasciano intendere, con un linguaggio prudente ma chiarissimo, i giornalisti in diretto contatto con la Procura di Roma, quindi, in ultima analisi, gli stessi pm. Eppure per la stampa cartacea e audiovisiva, il sottosegretario alle Infrastrutture è già colpevole, impresentabile; il ministro Danilo Toninelli gli ha già ritirato le deleghe; e Luigi Di Maio gli ha già chiesto di «sedersi in panchina».
Sembra quasi che i magistrati al lavoro sull’inchiesta nata a Palermo, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi, vorrebbero riportare l’informazione sull’inchiesta nei binari della realtà. Si sa solo che Paolo Arata, accusato a sua volta di corruzione e destinatario approfondite perquisizioni, ha detto al figlio Franco che l’operazione relativa all’emendamento sul micro - eolico sollecitata, senza successo, per il tramite di Siri, «è costata 30mila euro». Nelle carte dei pm non c’è un’altra frase intercettata del tipo “quei 30 mila euro sono andati” o “sono stati offerti a Siri”. E anche le presunte tangenti che Arata avrebbe disseminato negli uffici della Regione Sicilia sono introvabili ( nel caso dell’ex dirigente dell’Energia Alberto Tinnirello) o ipotizzate sotto forma di un incarico professionale ( per il funzionario Giacomo Causarano).
Dagli uffici di Piazzale Clodio filtra anche che le verifiche degli inquirenti sono mirate alle numerose società controllate dagli Arata: Etnea, Alquantara, Solcara, e Solgesta. Al setaccio i cellulari e tutto il materiale sequestrato. Il resto è nelle brevi frasi strappate a Siri, che si dice «allibito» e che non intende lasciare l’incarico ( «io lavoro» ). Tra le poche altre certezze c’è che un altro figlio di Arata, Federico, ha da poco ottenuto un contratto a Palazzo Chigi, con il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Si sa del ricorso al Riesame annunciato dall’avvocato di Arata, Gaetano Scalise, e dell’intenzione di quest’ultimo di farsi interrogare subito dopo Pasqua. Anche Siri e il suo legale, Fabio Pinelli, assicurano di «essere a disposizione» dei magistrati. Ma per ribadire l’estraneità del sottosegretario alle accuse di tangenti offerte al fine di favorire l’imprenditore Vito Nicastri, già ai domiciliari per concorso esterno, ora in carcere. Un quadro suggestivo. Ma senza prove.