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La banalità del male sempre in agguato. E quel pendolo che oscilla tra l’atrocità delle leggi razziali e i diritti, da tenere fermo sulla Costituzione. A 80 anni dalla loro promulgazione, avvocati, magistrati e docenti si sono confrontati sulle leggi razziali, facendo i conti con l’orrore di una tragedia che riguardò anche il mondo della giustizia. Ricavandone un monito: la necessità di una memoria attiva e di un’analisi critica che impedisca il risorgere di quel paradosso che è stato il diritto ineguale. È questo l’esito della tavola rotonda di ieri a Palazzo Cavalli Franchetti, a Venezia, dal titolo “I giuristi italiani e le leggi antiebraiche del 1938 - Una riflessione comune ad ottant’anni dalla promulgazione”, organizzata dalla Fondazione Feliciano Benvenuti su iniziativa del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Venezia, in collaborazione con il Consiglio nazionale forense. Una riflessione, dunque, e non solo un promemoria, per evitare che la rievocazione periodica di questi eventi «rischi di normalizzare lo stesso ricordo e di diventare in questa maniera una forma di autoassoluzione», ha ammonito il presidente del Cnf, Andrea Mascherin. «Se basta un tratto di penna da parte di un legislatore perché cambi tutto - ha sottolineato non dobbiamo ritenere alcun diritto o prerogativa come acquisiti per sempre. Basta davvero poco per cominciare a declinare in maniera diversa quei valori, quei diritti che noi diamo per acquisiti e scontati».
Il punto di partenza per evitare questo rischio è la Costituzione, che rappresenta la distanza massima dalle leggi razziali. Un pendolo che si sta spostando da quel centro ideale, come dimostra la rivendicazione di un diritto fondato «sulla vendetta, sulla pena, sulla presunzione di colpevolezza» e dall'abitudine a rivendicare solo i diritti, ma non i doveri, come quello della solidarietà. Ma il principio di uguaglianza, «in tante manifestazione del pensiero e nelle opere di chi governa, in un'ondata culturale che viene da lontano» si è impoverito, assieme all'idea dello Stato di diritto. «Da un po' di tempo la figura dell'avvocato viene sovrapposta quella dell'imputato - ha evidenziato - ed è esattamente la negazione del principio di uguaglianza davanti alla giurisdizione. E lo stesso accade alla magistratura: l’assoluzione, nel nostro Paese, è diventata sinonimo di sconfitta dello Stato. Non tutti hanno diritto di essere difesi e i giudici dovrebbero rispondere a quella che è la richiesta della giuria popolare, una giuria peraltro incontrollabile».
Il compito è uno: «contrastare qualsiasi oscillazione del pendolo e riportarlo alla propria base». La discussione ha rievocato il ruolo di avvocati e magistrati nel periodo fascista, raccontato nel libro “Razza e inGiustizia”.
Dietro alla grande impalcatura della razza italica e all'ideologia che l'ha sorretta, «c’è stato un grande contributo dei giuristi italiani - ha sottolineato Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Corte di Cassazione - perché stiamo parlando di leggi, di decreti, numerosissimi, minuziosi, particolareggiati e toccavano ogni sfera della vita individuale di coloro che appartenevano alla comunità israelitica. Leggi scritte dal legislatore e legislatori sono i giuristi».