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«Rivendico di aver voluto la norma che imponeva alle forze di polizia di informare le proprie scale gerarchiche», ha dichiarato il capo della polizia Franco Gabrielli, intervenendo ieri ad un convegno sul rapporto fra potere giudiziario e potere esecutivo organizzato al Palazzo di giustizia di Milano dal Centro Studi Ambrosoli e dall’Ordine degli avvocati del capoluogo lombardo. A confrontarsi con Gabrielli, i capi delle maggiori Procure del Paese.
«Il vertice del Dipartimento della pubblica sicurezza non può non sapere cosa avviene nel Paese», ha sottolineato Gabrielli, illustrando la genesi dell’art. 18 comma 5 del ddl n. 177 del 2016, recentemente dichiarato incostituzionale dalla Consulta.
«Era una norma che perequava le attività informative delle forze di polizia. Esisteva a tal riguardo, sostanzialmente identico e già dal 2010, un articolo del Regolamento dell’Arma dei carabinieri».
Alla domanda sul perché una disposizione del genere fosse stata inserita nella legge che disponeva lo scioglimento del Corpo forestale dello Stato, la risposta è stata netta: «Era il primo provvedimento legi- slativo utile».
«Si è fatta molto dietrologia su questo ddl. Nessuno voleva limitare l’autonomia della magistratura o violare il segreto investigativo. Si voleva solamente disciplinare il flusso informativo. Mi auguro che il legislatore, una volta note le motivazioni della Consulta, torni sui propri passi», ha poi concluso il capo della polizia prima di lasciare spazio alle repliche delle toghe.
«Il pm si è burocratizzato, attende sempre più spesso le deleghe della polizia giudiziaria», ha esordito Francesco Greco, procuratore di Milano, sottolineando come ultimamente si stia privilegiando, nella gestione dei fascicoli, la quantità sulla qualità. Sempre più spesso «i capi d’imputazione vengono scritti dal maresciallo», ha puntualizzato Greco, evidenziando che ciò è dovuto al numero spropositato di procedimenti in carico al pm. A tal proposito, «la prescrizione è una valvola di sfogo di un sistema chiuso come il nostro, caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale. Abolendola si ingolferanno oltre misura le Corti d’Appello».
A Nicola Clivo, ex togato del Consiglio superiore della magistratura, è toccato il compito di illustrare il punto di vista del giudice. «La polizia giudiziaria deve svolgere la propria attività avendo presente che l’orizzonte ultimo è il processo. Quindi, qualità raccolta della prova e attenzione alle garanzie.
Uno dei rischi sul processo è il copia e incolla: dall’informativa della pg alla sentenza d’appello». Per Clivio bisogna evitare la “fuga dal dibattimento”.
Il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, ha invece incentrato il proprio intervento sulle tecnologie. «La magistratura ha bisogno di confrontarsi con i mutati scenari, condividendo questo percorso con l’avvocatura».
La funzione dell’avvocato in tale ambito è «fondamentale» anche per il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio. «Il ruolo del pm - ha aggiunto - è quello di dirigere la polizia giudiziaria: un compito importante da svolgere con grande attenzione. L’avocazione del procedimento non è strumento di controllo, ma di collaborazione: ricordiamo che vige il precetto costituzionale della ragionevole durata del processo”, ha concluso il pg della Cassazione.
Ad Armando Spataro, procuratore di Torino, le conclusioni sul rapporto pm/ pg: «L’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pubblico ministero è il miglior binomio possibile».