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Cartabia
Tra la procura di Milano e il Tribunale di Verbania ci sono 80 chilometri. Due città diverse, ma simili, perché finite al centro, nelle ultime settimane, degli scontri interni alla magistratura. Scontri violenti, veleni, accuse pesanti, che hanno spinto la ministra della Giustizia Marta Cartabia a spedire gli ispettori in entrambi i posti, per avviare un’inchiesta amministrativa e verificare cosa sia accaduto durante le indagini Eni-Nigeria e sulla tragedia della funivia del Mottarone. «Dopo la diffusione di notizie in merito all’iscrizione nel registro degli indagati di due pm della Procura di Milano - si tratta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, ndr - e alla luce del deposito delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano, il ministero ha chiesto all’ispettorato di svolgere accertamenti preliminari, al fine di una corretta ricostruzione dei fatti, attraverso l’acquisizione degli atti necessari». Stessa storia a Verbania, dove a far discutere, invece, è stata la sostituzione della gip Donatella Banci Buonamici, prima presa di mira per aver scarcerato due degli indagati e mandato ai domiciliari il terzo, poi cambiata in corsa proprio mentre stava per accogliere la richiesta di incidente probatorio avanzata da una delle difese. Dei fatti in questione sono stati informati anche il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, e il Csm, che nel caso di Verbania ha già aperto una pratica per verificare se sia stato o meno legittimo il provvedimento preso dal presidente del Tribunale Luigi Maria Montefusco. L’obiettivo è quello di fare chiarezza e fugare ogni dubbio. Gli ispettori di via Arenula, dunque, chiederanno ora ai vertici degli uffici giudiziari competenti sul caso Eni-Nigeria e sulla tragedia del Mottarone la trasmissione di una serie di atti, sulla base dei quali verrà stilata una relazione finale su quanto accaduto. Quel che è certo, intanto, è che i due tribunali sono diventati epicentro di veri e propri terremoti all’interno della magistratura. A Milano, in particolare, nei corridoi di procura e tribunale «si respira una brutta aria», fanno sapere gli addetti ai lavori. I pm chiedono al procuratore Francesco Greco un confronto, così come già avevano fatto dopo la sentenza di assoluzione dei 15 imputati del processo Eni. Ma tutto, ai piani alti della Procura, tace. L’indagine sui due pm, che hanno visto l’inchiesta crollare sotto il peso della «mancanza di prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo», come hanno scritto i giudici in sentenza, nasce dal fuoco incrociato tra magistrati della stessa procura. Fuoco rimasto, fino ad un certo punto, sotto la cenere, per poi diventare un grande incendio. Ad accusare De Pasquale e Spadaro di aver omesso alcune prove fondamentali, infatti, è un altro pm, Paolo Storari, anche lui indagato a Brescia per rivelazione di atti d’ufficio, per aver consegnato i verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, a Piercamillo Davigo. Tutto nasce, infatti, proprio dalla gestione di Amara e del grande accusatore del processo Eni, Vincenzo Armanna, all’epoca da poco licenziato dalla compagnia ma comunque attivo negli investimenti all’estero nel settore petrolifero. Storari aveva infatti segnalato attraverso alcune mail inviate a De Pasquale, Spadaro, l’aggiunta Laura Pedio (con la quale stava gestendo l’inchiesta sul “Falso complotto Eni”) e il procuratore Francesco Greco l’inattendibilità di Armanna. Inattendibilità sancita anche dai giudici, che hanno pesantemente criticato la scelta dei due pm di non produrre come prova il video registrato di nascosto da Amara che dimostrava l’intento di Armanna di gettare fango sull’Eni. Elemento, questo, non conosciuto da Storari, in possesso comunque di informazioni importanti: il presunto pagamento, da parte di Armanna, di un teste, al quale avrebbe versato 50mila dollari in cambio di una testimonianza al processo, e la presenza di chat false, prodotte dallo stesso Armanna, comunque finite a processo, nonostante i pm fossero consapevoli di questa circostanza. Quel materiale, secondo De Pasquale, Spadaro, Greco e Pedio, era infatti stato acquisito da Storari senza seguire le procedure del caso, così come le comunicazioni inviate sarebbero state inutilizzabili in quanto spedite in via informale, sotto forma di documenti word privi di firme. Di tutto ciò Storari ha parlato nel corso dei due interrogatori avvenuti a Brescia nell’inchiesta che lo vede indagato per il caso verbali. E lì il pm meneghino - per il quale il Csm ha già avviato l’azione disciplinare - ha spiegato anche quelle che, a suo dire, sarebbero le ragioni del comportamento dei colleghi. Secondo Storari, infatti, la posizione di Amara non doveva essere compromessa da una sua possibile iscrizione nel registro degli indagati per calunnia in relazione alle sue dichiarazioni sulla presunta “Loggia Ungheria” - della quale farebbero parte magistrati, politici, ufficiali delle forze dell’ordine e vertici delle istituzioni, capaci di gestire le nomine a proprio piacimento - per non minare la sua credibilità come possibile teste nel processo del caso Nigeria. De Pasquale e Spadaro, infatti, hanno tentato di inserire Amara tra le persone da sentire al processo, una scelta dettata sempre dalle sue dichiarazioni, secondo le quali i legali di uno degli imputati sarebbero stati in grado di avvicinare il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada. Così, mentre Storari raccoglieva le dichiarazioni di Amara sulla presunta “Loggia Ungheria” e chiedeva ai vertici dell'ufficio di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e tabulati telefonici, Greco e Pedio portavano a Brescia il verbale di Amara sulle presunte «interferenze» delle difese Eni sul giudice. Da lì venne aperto un fascicolo, poi archiviato. La versione di Storari, dunque, è chiara: la linea dei vertici dell’ufficio era quella di evitare possibili indagini su Amara affinché potesse essere sentito durante il processo. Così come non poteva essere screditato Armanna, architrave dell’intera inchiesta. Ma a distruggere la solidità delle sue dichiarazioni ci ha pensato il tribunale: «Il suo atteggiamento opportunista rivela una personalità ambigua, capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e, in ultima analisi, denota un’inattendibilità intrinseca che certamente non avrebbe potuto essere sanata dalla testimonianza di Piero Amara».