La sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Non distrugge ciò che avrebbe voluto Falcone. Anzi fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato.

No, la sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi dal carcere. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Ma, soprattutto, non distrugge ciò che avrebbe voluto Giovanni Falcone. Anzi, al contrario, fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato dal tritolo in via Capaci.

L'ORIGINE DEL 4 BIS NEL RISPETTO DELLA COSTITUZIONE

Ma andiamo con ordine. La Cedu, il 13 giugno scorso, si era espressa sul ricorso dell’ergastolano Marcello Viola e assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo. Tutto ruota su quella parte del 4 bis che nega, a priori, qualsiasi concezione dei benefici se c’è assenza di collaborazione. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società.

Ciò si avvicina di molto a ciò che aveva voluto Giovanni Falcone quando, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis. Perché? Basterebbe leggere un capitolo del recente libro – con la prefazione di Mauro Palma - dal titolo “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”. Un libro pensato da autorevoli giuristi come Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Davide Galliani, Paulo Pinto de Albuquerque e Andrea Puggiotto.

Giovanni Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone, contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato.

Ecco perché la sentenza Viola, se applicata, si avvicina al decreto Falcone originale: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Poi accadde che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, il quale introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario. Con il nuovo decreto legge, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone aveva invece salvaguardato. Usare quindi il suo nome per opporsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo è, di fatto, una operazione irrispettosa per chi, pur combattendo duramente la mafia, aveva a cuore la nostra costituzione.

COLLABORAZIONE E PERICOLOSITÀ SOCIALE

Numerosi esponenti di primo piano dell’attuale governo, Commissione antimafia compresa, hanno sollevato numerose polemiche su tale sentenza, soprattutto puntando sul fatto che se dovesse essere modificato il 4 bis, si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi i permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. Ma la collaborazione è un elemento indissolubile per la lotta alla mafia? L’istituto dei collaboratori di giustizia è uno dei principali strumenti utilizzati negli ultimi venti anni nella lotta contro la criminalità organizzata. Lo stesso Giovanni Falcone, però, uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori, valutava la dichiarazione dei pentiti con grande prudenza.

Fu uno dei motivi per il quale venne aspramente criticato. Ma, ritornando alla sentenza Viola, gli stessi giudici della Corte europea hanno evidenziato che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Qui la differenza tra dissociazione e collaborazione.

Anche il magistrato Nino Di Matteo ha criticato aspramente la sentenza Viola. A rispondergli però, è Sergio D’Elia dell’associazione del Partito Radicale Nessuno tocchi Caino. «Tale posizione – sottolinea D’Elia - è un atto di sfiducia nei confronti dei giudici delle alte giurisdizioni chiamati a valutare la compatibilità della legge nazionale con i principi fondamentali della carta costituzionale italiana ed europea. Ma è un atto di sfiducia anche nei confronti dei magistrati ordinari, a partire da quelli di sorveglianza, che continuano a mantenere il potere di concedere benefici o misure alternative agli ergastolani».

E aggiunge: «E’ un atto di sfiducia anche nei confronti di se stesso, poiché la magistratura di sorveglianza deciderà sulla base delle informative delle varie Direzioni Distrettuali e Nazionale Antimafia, di cui lui stesso fa parte. Quindi, dopo la fine dell'ergastolo ostativo, capimafia o picciotti potranno uscire dal carcere solo se e quando pm e giudici lo vorranno. A ben vedere, con la sentenza Viola vs Italia, saranno liberi, più che gli ergastolani, i magistrati che oggi hanno le mani legate dal vincolo della collaborazione previsto dal 4 bis».

Tali concetti sono stati ribaditi anche durante il convegno organizzato dall’osservatorio carcere delle Camere penali italiane e e da Magistratura democratica che ha visto, tra gli altri, la partecipazione del responsabile dell’osservatorio carceri Gianpaolo Catanzariti, il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini del Partito Radicale, il presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito e il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Tutti concordi nel dire che la sentenza Viola rimette al centro il concetto di “speranza”.

ASPETTANDO LA CONSULTA IL 22 OTTOBRE

E a proposito di speranza, il 22 ottobre la Corte costituzionale dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis. Parliamo del caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Le polemiche sono montate soprattutto per questo: il “timore” che la Consulta possa aprire le porte del carcere ai boss mafiosi. A rispondere è l’avvocato del foro di Roma Valerio Vianello Accorretti che assiste Cannizzaro.

«È un errore macroscopico sostenere questo timore- osserva l’avvocato a Il Dubbio -. Si eliminerebbe solo l’obbligo di collaborare sugli episodi per cui si è stati condannati, ma resterebbe la necessità di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo in carcere, nonché l’ulteriore esigenza di escludere l’attualità di collegamenti con le realtà criminose di originaria appartenenza. Presupposti il cui rispetto sarà sempre sottoposto al controllo di un magistrato di Sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere alcun beneficio penitenziario». Questi sono i fatti, il resto sono fin troppe inesattezze nei confronti dell’opinione pubblica che non fanno altro che alimentare l’ignoranza del diritto e l’indifferenza verso i diritti.