Trentatré giornalisti, un viceprefetto, tre magistrati e pure la portavoce dell'allora presidente della Camera Laura Boldrini. Tutta gente che parlava al telefono con Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, e finita nelle intercettazioni eseguite dalla Guardia di Finanza di Locri a carico dell’uomo simbolo dell’accoglienza, nel corso dell’inchiesta che lo ha portato a processo assieme ad altre 26 persone. Ma non solo: Lucano è stato anche intercettato mentre era al telefono con i suoi difensori, all’epoca Antonio Mazzone (recentemente scomparso e sostituito dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia) e Andrea Daqua. A dare la notizia è stato il quotidiano Domani, lo stesso che ha fatto venire alla luce il cosiddetto
“sistema Trapani” e che ha pubblicato un elenco parziale della miriade di persone registrate mentre si trovavano al telefono con l'ex primo cittadino calabrese. La vicenda siciliana è nota: la giornalista d’inchiesta Nancy Porsia è stata spiata per mesi dai magistrati, rendendo così pubbliche le sue fonti. E in quel caso sono stati ben cinque gli avvocati intercettati, tutti alle prese con questioni legate al loro mandato difensivo, in violazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale. La vicenda Lucano si differenzia per un fatto: in questo caso, i giornalisti - tra i quali quelli di Repubblica, Fatto Quotidiano, Dubbio, Famiglia Cristiana, La7, Ansa e diverse testate calabresi - sono stati ascoltati mentre discutevano con il principale indagato, ovvero senza che fossero le loro utenze ad essere sottoposte a captazione. Ma in ogni caso sono decine le conversazioni spiate dai finanzieri, che ascoltano in anteprima interviste e domande rivolte dai cronisti all’ex sindaco. L’inchiesta si sviluppa nello stesso periodo di quella siciliana, ovvero proprio nel periodo in cui le politiche dell’accoglienza, attraverso l’azione dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, hanno posto forti limiti all’azione delle ong e ai diritti dei richiedenti asilo.
Quasi simultaneamente, due procure si sono attivate colpendo da un lato i soccorsi in mare, dall’altro una gestione dell’accoglienza basata sull’integrazione e non sulla ghettizzazione. Così come il decreto Minniti, che da un lato imponeva un codice di regolamentazione alle ong (firmato da tutte tranne Medici senza frontiere) che di fatto le impegnava a non entrare nelle acque territoriali libiche e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue da parte della Guardia costiera libica, la cui condotta è finita nel mirino dell’Onu per i crimini contro i migranti, e dall’altro estendeva la rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari. Insomma, esattamente i modelli opposti a quelli di Msf e Lucano, fino a quel momento esaltati anche dalle istituzioni. Contemporaneamente, i giornalisti, quelli che Lucano definiva «la mia forza», sono finiti nella rete a strascico della procura. Nel caso di Francesco Sorgiovanni, giornalista del Quotidiano del Sud, le conversazioni erano finite anche nell’ordinanza di custodia cautelare. Le altre, ritenute ininfluenti dagli stessi investigatori, sono state comunque trascritte e sono contenute nei brogliacci, 772 files consegnati alle difese e poi passate di mano in mano, arrivando alla stampa. «Non solo nel mio interesse - ha dichiarato Lucano - ma nell'interesse del corretto esercizio delle attività processuali, spero che la giustizia faccia chiarezza anche su questo aspetto. Non è normale che i giornalisti e i loro numeri di telefono siano stati resi pubblici così come non è normale che vengano riportate le mie intercettazioni con magistrati che nulla hanno a che vedere con le indagini. Per il resto, attendo con fiducia l'esito del processo che mi riguarda». Ma ci sono anche tre magistrati nel grosso faldone del caso Riace. Uno, Emilio Sirianni, era già finito nel tritacarne mediatico, quando il Giornale lo attaccò per aver anteposto la solidarietà alla legge. All’epoca il Csm aprì un fascicolo disciplinare sulla toga, che venne però assolta. L’accusa era emblematica: aver dato consigli - da amico - al sindaco di Riace nel corso delle indagini. Non sugli atti - all’epoca non conosciuti dai due - ma su quanto noto a tutti. Ma nell’immenso pacchetto accoglienza locrese ci sono anche altri due magistrati: Roberto Lucisano, presidente della Corte d’assise d’Appello di Reggio Calabria, “colpevole” anche lui di esprimere affetto e solidarietà a Lucano, e Olga Tarzia, presidente di sezione della stessa Corte. Per i due erano stati aperti due fascicoli disciplinari e per entrambi è stata disposta l’archiviazione, proprio in quanto conversazioni amicali. Ma anche in quel caso tutto risulta trascritto, tutto è finito nero su bianco, così come le questioni personali di Lucano, le sue vicende familiari, le problematiche e gli sfoghi del tutto sconnessi dall’indagine. Ed è proprio per tale motivo che il Pd ha chiesto alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, l’invio degli ispettori ministeriali alla Procura di Locri, così come accaduto a Trapani. «Insieme ai colleghi Bonomo, Bruno Bossio, Cantone, Ciampi, Digiorgi, Fiano, Frailis, Morassut, Orfini, Pellicani, Pezzopane, Pini, Raciti e Siani, ho depositato un'interrogazione al ministro della Giustizia Marta Cartabia -, ha affermato il deputato dem Stefano Ceccanti, capogruppo in Commissione Affari Costituzionali -. Appare opportuno che siano adottate iniziative affinché sia garantito lo scrupoloso rispetto dei principi generali relativi alla tutela del diritto di cronaca, della libertà personale e di informazione e del diritto alla difesa. Il ripetersi di fatti analoghi sembra anche far pensare a prassi diffuse in violazione di legge che appaiono gravi anche quando non avvengano solo nei confronti di cronisti».
A chiedere accertamenti è anche la Federazione nazionale della stampa. «Le intercettazioni delle conversazioni di numerosi cronisti da parte della Procura di Locri, oltre che da quella di Trapani - si legge in una nota a firma del segretario generale Raffaele Lorusso - rendono ancora più inquietante una vicenda indegna di un Paese civile. È inaccettabile che siano state trascritte conversazioni che la stessa polizia giudiziaria riteneva di nessuna importanza». Ad intervenire è anche il direttivo dell'Unci Calabria: «La sensazione è che si sia voluta ricostruire la rete di giornalisti con il quali Lucano si sentiva». E che i giornalisti fossero un "problema" per le indagini emerge anche da un altro particolare: l'allora prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, poi nominato dall'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, colui che con le sue ispezioni avviò la macchina che distrusse il modello Riace, scrisse alla procura di Locri esprimendo preoccupazione per l'atteggiamento dei giornalisti: lo si evince da una lettera del 14 maggio 2016, quando ipotizzò «tentativi di mutare lo scenario, peraltro, a primo acchito ammantato da un idilliaco alone» del caso Riace. Tentativi che «potrebbero scontrarsi con plateali manifestazioni di protesta, suscettibili di probabile enfatizzazione da parte dei mezzi di comunicazione». Tant'è vero che le manifestazioni di solidarietà al sindaco non vennero autorizzate dalla Questura, mentre quelle anti-Lucano promossa da Forza Nuova a inizio 2017 fu autorizzata. Ma come le altre che si proponevano di smitizzare la sua figura, fu un flop.