La prossima settimana si terrà a Roma un evento piuttosto importante: la riunione delle avvocature dei paesi del G7. Non era mai successo. La riunione, che è stata organizzata dalla avvocatura italiana ( precisamente dal Cnf, e della quale nei prossimi giorni vi daremo informazioni dettagliate) affronterà molte questioni, come è logico, ma al centro dei suoi lavori ci sarà soprattutto un tema attualissimo: il linguaggio dell’odio, il male sociale che produce, le strategie possibili per combatterlo, nel nome e non in violazione del diritto.

Si può giudicare questo avvenimento come un importante avvenimento culturale. Sicuramente di grande rilievo, se non altro per il livello molto alto della partecipazione, non solo delle avvocature ma di rappresentanti prestigiosi delle istituzioni, italiane e internazionali. Oppure si può evitare di collocarlo, seppure ad alto livello, tra i consueti appuntamenti pubblici, e ragionare un momento sulle novità che questo avvenimento produce. Perché alcune di queste novità non sono indifferenti per gli assetti delle società moderne. Dal momento che questi assetti - e soprattutto il rapporto tra diritti, mercato, politica, governo - non sono affatto ben definiti ancora, e anzi sono oggetto di discussioni, conflitti, battaglie anche molto aspre.

La prima novità è nell’avvenimento stesso. E cioè nel fatto che le avvocature dei sette paesi più potenti dell’Occidente decidano di riunirsi attorno a un tavolo e quindi di proporsi come soggetto pubblico. Noi conosciamo i tradizionali soggetti del dibattuto pubblico che hanno di solito un peso internazionale: gli Stati, innanzitutto, poi i partiti, i sindacati, alcuni grandi istituti culturali, alcune lobbies ( e naturalmente la grande finanza), le università, alcuni gruppi editoriali ( senza tener conto delle religioni).

Non era mai successo che i rappresentanti di una professione si proponessero non in quanto difensori di quella professione - o di quella corporazione - ma come soggetti “generali” di una battaglia civile di dimensioni internazionali. E questo è possibile perché la professione dell’avvocato non è una professione qualunque: ha un ruolo specialissimo nel funzionamento della società e dello Stato liberale. Un ruolo che in alcune Costituzioni - per esempio la nostra - è codificato, cosa che non succede per nessun’altra professione.

La seconda novità è collegata alla prima e sta, appunto, nella affermazione del proprio ruolo sociale. Che non sempre, negli ultimi decenni, gli avvocati hanno difeso con eccessivo coraggio. Il senso comune oggi è pervaso dall’idea che lo Stato di diritto sia assicurato dalla saldezza e dall’onestà della magistratura e da una politica che ne accetti la supremazia. Punto. Il ruolo dell’avvocato è visto nel migliore dei casi come un ruolo accessorio, secondario, ma molto spesso addirittura come un ruolo deleterio, di complicità con il crimine. Lo abbiamo osservato proprio in questi giorni qui in Italia, ad esempio con la difficoltà incontrate dagli avvocati che hanno assunto la difesa degli accusati per lo stupro di Rimini, e che dall’opinione pubblica, dai social network ma anche da gran parte della stampa, sono stati indicati come “mestatori”, gente che cerca il guadagno difendendo l’immoralità e dunque diventando immorale.

Non è un problema piccolo. Questo punto di vista, probabilmente maggioritario, è il risultato di un lungo processo di imbarbarimento culturale - del quale in una altra sede esamineremo le cause politiche - che da alcuni decenni sta accompagnando, specialmente in Italia – ma non solo – lo svilupparsi della modernità.

Perché la giustizia possa essere concepita come realizzazione del diritto, e dunque dei diritti di tutti, e non come mannaia che una parte “scelta” - onesta, giusta, incorruttibile - della società abbatte sulla parte marcia e colpevole, e la taglia fuori, e la elimina – compiendo la palingenesi – non basta un articolo di giornale, né il grido di qualche garantista, serve una battaglia estesa, capillare, idealmente e culturalmente robusta, e che abbia delle gambe forti. Possiamo dire, in tutta sincerità, che negli ultimi 25 anni, a parte qualche donchisciotte, qualcuno abbia dato respiro e carburante a questa battaglia?

Ecco qui la seconda novità: una avvocatura che si presenta per rivendicare il proprio ruolo nella società e per proclamarsi “pilastro” di una giustizia basata sul Diritto e non sulla pulsione al linciaggio. E che si impegna a svolgere questo ruolo, e cioè a guidare la battaglia per imporre lo Stato di diritto come culmine dello stato liberale e della democrazia e come sostanza della modernità. Contrapposto agli altri due modelli alternativi ( e spesso alleati tra loro): quello del non- Stato, perché basta il mercato, e quello dell’antico e totalitario Stato Etico.

Ho usato intenzionalmente la parola “guidare”. E non la parola “partecipare”. La novità sta qui. L’avvocatura sceglie di non ritagliarsi più un ruolo di “sostegno”, tuttalpiù di spettatrice attiva. Ma si candida a prendere la testa di un movimento che sin qui non ha mai avuto una leadership, e proprio per questo è risultato sempre perdente.

La terza novità sta nel “tema principe” di questo evento. E cioè l’analisi del linguaggio dell’odio, delle cause del suo dilagare, della funzione che svolge nella società moderna, e delle possibilità che ci sono di combatterlo con le armi della libertà e del diritto.

Che il problema dell’odio sia una delle questioni aperte da questa fase della modernizzazione, credo che sia un fatto indubbio. L’odio ha preso il posto che in epoche passate avevano tante forme diverse di conflitto. Ha sostituito la lotta politica, lo scontro sociale, l’appartenenza ideale, o anche valori diversissimi come il patriottismo, l’internazionalismo, l’egualitarismo, il nazionalismo, lo spirito di rivolta. Ha trasformato la nostra cultura. Ha condizionato l’intellettualità. Ha plasmato l’aggregarsi e il distribuirsi della paure. Ha influenzato le identità. E poi ha invaso il dibattito pubblico, il Web, l’arte, le nuove scale dei valori.

L’odio è esattamente quel sentimento – quella pulsione – ma anche quel valore che accantona sia la lotta politica sia il Diritto e ne assume la funzione. L’odio giudica, giudica con la stessa forza e autorevolezza dell’odio e non ammette giurisprudenza. L’odio indica i valori e non prevede la politica. L’odio supera ogni meccanismo e ogni tendenza della democrazia.

E il linguaggio dell’Odio, che ormai si sta strutturando ovunque – nei giornali, nelle scuole, nelle università, e naturalmente nella rete – è l’anticamera della Società dell’Odio.

Come ci si oppone? In che modo la cultura, la democrazia e il diritto possono imporsi e fare barriera? In che modo possono offrire se stessi come prospettiva alternativa alla società dell’odio?

Ecco, la terza novità di questo G7 dell’avvocatura è qui: nella decisione di mettere se stessa a disposizione di un impegno culturale e giuridico che viene considerato decisivo per la costruzione di una modernità che non sia la riproposizione tecnologica dell’antico, non sia un arretramento “efficiente” della civiltà. Ma sia una società che metta il diritto avanti a tutto. La modernità è diritto non è tecnologia. La tecnologia è strumento della modernità, non è modernità.

E una sfida molto complicata. Ambiziosissima. Intanto è già un grande passo che sia stata lanciata. Adesso vediamo come si svolgerà, e vediamo se esistono - nella società, nella politica, nel giornalismo forze che hanno voglia di accoglierla questa sfida.