di Bartolomeo Romano *

Probabilmente anche questa è una conseguenza del covid- 19 e della grave crisi economica connessa: l’articolo 23 del decreto legge 76 del 16 luglio 2020, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, incide sul delitto di abuso di ufficio, di cui all’articolo 323 del codice penale. Ma i problemi che da decenni sono collegati a tale reato sono complessi e difficili da superare con riforme parziali, che peraltro riguardano prevalentemente il versante delle responsabilità dei pubblici agenti e non incidono, su un piano più generale, sul funzionamento e sull’efficienza della Pubblica Amministrazione.

TANTE RISCRITTURE INSODDISFACENTI

Basti qui osservare che già non convinceva l’originaria formulazione dell’articolo 323 c. p., dovuta al legislatore del 1930, che aveva costruito l’abuso di ufficio «in casi non preveduti specificamente dalla legge» come una sorta di norma di chiusura del sistema, peraltro già di per sé abbastanza indeterminato e generico, in virtù della coesistente presenza del peculato per distrazione ( articolo 314 c. p.) e, soprattutto, del delitto di interesse privato in atti di ufficio ( articolo 324 c. p.). Ma non era soddisfacente neppure il testo dovuto alla legge 86 del 1990, la quale, tra l’altro, sostituì integralmente l’articolo 323 c. p.; e neppure condivisibile era la versione offerta dalla legge 234 del 1997, con la quale l’articolo 323 c. p. fu nuovamente modificato del tutto. Quanto all’intervento legato alla legge 190 del 2012 ( la cosiddetta legge Severino), si è trattato dell’ormai consueto rilancio in termini di severità della cornice edittale.

Tutte le riforme sin qui intervenute non hanno dato i frutti sperati: quelli, soprattutto, di conferire maggiore precisione e determinatezza ad una fattispecie vaga e produttiva di procedimenti penali spesso finiti nel nulla. I dati diffusi in questi giorni segnalano la pendenza di circa 7.000 procedimenti penali negli anni 2016 e 2017, a fronte di ( soltanto) un centinaio di sentenze definitive di condanna.

Allo stesso tempo, dobbiamo rilevare che il legislatore si è ripetutamente impegnato ( con esiti infausti) a rimaneggiare l’abuso di ufficio, invece che operare in profondità, riformando la Pubblica Amministrazione, rendendola veramente efficiente e istituendo seri controlli interni.

TRA CACCIA ALL’UOMO E INERZIA DIFENSIVA

Purtroppo, come segnalato in un volume appena pubblicato, curato dal sottoscritto e da Antonella Marandola, dedicato ai Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, sono decenni che più che l’efficienza dell’azione dell’apparato pubblico, si è inteso porre al centro dell’attenzione del legislatore la questione della “lotta” o del “contrasto” alla corruzione e al malaffare, ritenuti – certo, non a torto – problemi gravissimi del nostro Paese, soprattutto alla luce della cosiddetta corruzione percepita. Almeno dai tempi di “tangentopoli”, all’inizio degli anni ’ 90 del secolo scorso, con conseguente affermazione della cosiddetta questione morale, passando dalla legge Severino del 2012 e, soprattutto, dalla “spazza- corrotti” ( legge 9.1.2019, n. 3), si è attuata una feroce “caccia all’uomo”, e al funzionario infedele, affidando al controllo della magistratura penale un ruolo ed una funzione che ha in ben pochi Paesi.

Tale situazione ha diffuso la paura nei funzionari pubblici e, nel segno della fuga dalla firma e da ogni decisione, ha condotto alla “burocrazia difensiva” o “del non fare”, che ha contribuito ( non da sola…) a frenare il Paese e la sua economia.

IL DL 76 CAMBIA DAVVERO IL REATO

Ora il Governo, con il decreto legge 76 del 16 luglio 2020, ha inteso cambiare radicalmente rotta: secondo il comunicato stampa diffuso subito dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 7 luglio e la stessa conferenza stampa del Presidente del Consiglio, si vogliono semplificare i procedimenti amministrativi, eliminare e velocizzare gli adempimenti burocratici, digitalizzare la pubblica amministrazione, sostenere l’economia verde e l’attività di impresa. A tal fine, per quel che qui rileva, con il d. l. 76 si agisce “a forbice” sullo specifico tema della responsabilità dei pubblici agenti, sia sotto il profilo della responsabilità erariale, che sotto quello della responsabilità penale.

In particolare, limitandoci alla seconda, con l’articolo 23 del d. l. 76, all’articolo 323, primo comma, del codice penale, le parole «di norme di legge o di regolamento,» sono sostituite dalle seguenti: «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» .

Dunque, rimanendo nel resto invariata la norma, non è più sufficiente — rispetto al passato — che il pubblico funzionario violi qualsiasi norma di legge o di regolamento. Occorre che la violazione concerna leggi o atti aventi forza di legge: pertanto, “norme primarie” e non più anche il regolamento. Questa modifica, se permarrà in sede di conversione del decreto legge, ha una portata di grande respiro, tagliando di fatto la punibili- tà di un numero elevatissimo di condotte oggi punibili. Ed infatti, chi ritiene ancora che il controllo della magistratura sulla pubblica amministrazione debba avere un carattere esteso e diffuso auspica che detta limitazione venga meno in sede di conversione del decreto.

Inoltre, il d. l. 76/ 2020 richiede che la violazione sia ( non più di qualsiasi violazione di una norma, ma) «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge» . Anche questa innovazione restringe notevolmente la sfera del penalmente rilevante, poiché non sembrerebbe potersi più fare riferimento — come fa l’attuale giurisprudenza — alla violazione dell’articolo 97 della Costituzione ( con il generico riferimento al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione, che tutto può fagocitare e comprendere), ma occorrerà che le Procure contestino singole condotte espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge.

Infine, il d. l. 76/ 2020 chiarisce che occorre la violazione di specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, «dalle quali non residuino margini di discrezionalità» . Dunque, se il pubblico agente esercita un potere discrezionale, non dovrebbe essere possibile farne derivare una responsabilità penale, almeno per il delitto di abuso di ufficio. Anche questa modifica ( che pure desta talune perplessità) potrebbe avere una portata notevolissima, soprattutto se si considerano gli orientamenti giurisprudenziali che fanno riferimento all’eccesso di potere, letto nella luce dello sviamento di potere ( cfr. Cass. Sez. Un. 29.9.2011, n. 155, Rossi, in C. E. D. 251498).

MEGLIO ABOLIRLO, MA IL REATO COSÌ CAMBIA

L’impressione, dunque, a prima lettura, è che la nuova versione della norma sull’abuso di ufficio tenti ( non sempre correttamente e quasi disperatamente…) di restringere la sfera di intervento della legge penale sull’azione amministrativa. Rimangono, peraltro, ulteriori profili critici, quali — ad esempio — quello legato alla punizione dell’inosservanza di regole di condotta puramente formali o di natura meramente procedimentale, benché fissate dalla legge o da atti aventi forza di legge e prive di margini di discrezionalità. Si potrebbe, allora, specificare ancora che le regole violate dovrebbero essere collegate alle funzioni e al servizio esercitato o riguardare la disciplina degli interessi affidati alla tutela della pubblica amministrazione.

Ma, forse, più radicalmente, si potrebbe immaginare una abrogazione secca dell’articolo 323 c. p., non mancando — nel ricco panorama dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione — altre norme incriminatrici, più specifiche e severe, che potrebbero punire singole condotte meritevoli di repressione penale. E, al contempo, si dovrebbe produrre una riforma organica della Pubblica Amministrazione, troppo importante nei complessivi equilibri democratici per essere vista ( solo) come “il nemico” da contrastare e punire.

* Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo