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Fino a pochi anni fa, l’Italia era considerata un esempio virtuoso in Europa per il suo approccio alla giustizia minorile, basato sulla riabilitazione e sul reinserimento sociale. Oggi, però, quel sistema è in frantumi. Le carceri minorili, un tempo fiore all’occhiello del Paese, sono travolte da una crisi senza precedenti: sovraffollamento, condizioni disumane e una deriva punitiva che rischia di compromettere decenni di progressi.
A lanciare l’allarme sono associazioni, politici e osservatori indipendenti, che denunciano il collasso di un modello fondato sull’articolo 27 della Costituzione, il quale sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Il trasferimento dei giovani adulti alla Dozza
Il campanello d’allarme arriva da Bologna, dove il ministero della Giustizia ha deciso di trasferire 50 giovani adulti – ex minorenni al momento del reato – da istituti penali minorili a sezioni del carcere per adulti della Dozza. La misura, che dovrebbe essere temporanea, ha scatenato un coro di proteste. Una rete di oltre 15 associazioni – tra cui Albero di Cirene, AltroDiritto e la Cappellania del carcere “Rocco D’Amato” – ha pubblicato un appello per chiedere trasparenza e garanzia di continuità nei percorsi educativi. «I trasferimenti non possono basarsi solo su metri quadrati e numeri – si legge nel comunicato –. Questi giovani hanno diritto a non vedere interrotte le relazioni costruite con operatori e volontari, fondamentali per il loro futuro».
Il timore è che il passaggio a strutture per adulti, spesso caratterizzate da logiche meramente contenitive, vanifichi anni di lavoro. «Il carcere è società: restituire una persona formata e consapevole è un vantaggio per tutti», sottolineano le associazioni, citando le parole del presidente Mattarella («I detenuti devono respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti al crimine»). Ma la mancanza di dialogo con il territorio e le realtà civili rischia di trasformare i trasferimenti in un boomerang, disumanizzando non solo i detenuti, ma l’intera collettività.
Treviso: il simbolo del degrado con un sovraffollamento del 200%
Se Bologna rappresenta una preoccupazione per il futuro, Treviso è l’emblema del presente disastroso. Il carcere minorile della città veneta, progettato per 12 detenuti, ne ospita oggi 25: un sovraffollamento del 200%. Durante una visita congiunta, esponenti del Pd e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino hanno descritto una realtà «indegna di un Paese civile». I ragazzi, alcuni di 15 anni, dormono su materassi a terra in celle promiscue, condividono bagni fatiscenti – «docce su grate sopra i water» – e hanno accesso a un’unica aula scolastica, buia e inadatta.
«Qui la rieducazione è un’utopia», denuncia l’europarlamentare Pd Alessandra Moretti. Il campo da calcio, riaperto dopo un anno e mezzo di chiusura, è condiviso con il carcere per adulti, mentre il turnover elevato rende impossibile programmare percorsi formativi. A peggiorare il quadro, un esposto del 2022 per carenze di sicurezza e mancato rispetto delle norme antincendio, ancora senza risposta. La soluzione – l’apertura del nuovo istituto di Rovigo – è bloccata da ritardi burocratici, mentre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe presto condannare l’Italia per la seconda volta dopo il 2013.
L’analisi di Antigone: «Criminalizzare i minori è autodistruttivo»
A confermare la portata sistemica della crisi è Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, da quasi trent’anni impegnata nel monitoraggio carcerario. «Visitare un carcere minorile oggi è un pugno allo stomaco – racconta –. Giovani rinchiusi in celle luride, sedati da psicofarmaci, senza prospettive». Marietti punta il dito contro la svolta punitiva del governo: «Si è passati da un modello educativo a una logica di mera repressione. Il sottosegretario Ostellari si vanta dell’aumento dei detenuti minorili, ma è una vittoria di Pirro: più carcerazione senza riabilitazione significa più criminalità domani». L’apertura di sezioni minorili in strutture per adulti, come alla Dozza, è l’ultimo tassello di una deriva. «Trasferire 70 ragazzi senza curare i loro percorsi è inedito e disastroso – aggiunge Marietti –. L’Europa ci guardava come modello, ora assiste al nostro suicidio sociale».
Di fronte a questo scenario, le associazioni chiedono un cambio di rotta. Non basta costruire nuovi istituti o spostare detenuti: serve ripristinare un dialogo con la società civile, investire in formazione, lavoro e salute mentale. Come ricorda Papa Francesco nella lettera citata dall’appello bolognese: «Ciò che viene costruito sulla forza finisce male».
Come osservano vari osservatori dei diritti umani, la strada per risolvere la crisi esiste, e l’Italia l’ha già percorsa: negli anni ’80-’90, gli Ipm erano luoghi di innovazione, con tassi di recidiva tra i più bassi d’Europa. Come ha sottolineato più volte associazioni come Antigone , il primo passo è recuperare una visione pluriennale, capace di sostituire i decreti “spot” – come il Caivano – con un piano strutturato che riporti al centro la specificità della giustizia minorile.
Per sottrarre i ragazzi alla seduzione della criminalità – che offre denaro e riconoscimento sociale immediato – occorre proporre alternative desiderabili. Laboratori professionali, percorsi scolastici stabili, collaborazioni con aziende per inserimenti lavorativi: sono strumenti che costruiscono un orizzonte positivo. Oggi metà dei minori detenuti potrebbe scontare la pena in strutture alternative. Servono case-famiglia, comunità terapeutiche, misure come l’affidamento ai servizi sociali. È paradossale che un Paese con un tessuto associativo vivace come l’Italia non sappia valorizzare le reti territoriali già esistenti, dal volontariato alle cooperative sociali, per accogliere questi ragazzi.
È urgente ricostituire un dipartimento autonomo che ripristini l’approccio educativo e psicosociale. La cultura minorile che ci rese un esempio va recuperata. Ciò significa formare operatori e agenti penitenziari in modo congiunto, per comprendere le cause del disagio minorile e sviluppare strategie comunicative efficaci. Molti agenti sono giovani quasi quanto i detenuti: investire su di loro come figure educative, non solo di controllo, può trasformare le dinamiche dentro gli istituti penitenziari per minori.
Serve il coraggio di ripartire da lì, riscoprendo l’articolo 27 della Costituzione non come una formula retorica, ma come un impegno concreto. Perché, come scrivono le realtà del volontariato, “il carcere è società”: ciò che accade dietro le sbarre riguarda tutti. Restituire alla collettività un giovane consapevole dei propri errori, ma anche delle proprie potenzialità, non è un atto di buonismo: è l’unico vero antidoto all’illegalità.