PHOTO
Gian Maria Fara, presidente e fondatore dell'Eurispes
«È tutto rovesciato, paradossale. Noi italiani lottiamo contro la corruzione, la contrastiamo con eccellenti metodi d’indagine, apparati di polizia e giudiziari così articolati e numerosi da metterli persino in concorrenza. Non solo, perché abbiamo anche un sistema dell’informazione libero, davvero libero, che non ha alcun ostacolo, per fortuna, nel segnalare ogni singolo episodio di malaffare. E sa cosa succede?». Cosa, professore? «Che finiamo in fondo alle classifiche internazionali. Che paghiamo l’eccellenza in fatto di repressione e trasparenza con un effetto del tutto particolare: la sovraesposizione del fenomeno convince i cittadini che l’Italia è il più corrotto dei Paesi. E questo a sua volta fa in modo che l’Italia compaia ai primi posti dei ranking sulla corruzione, perché le graduatorie in questione sono costruite su indicatori soggettivi, come la percezione appunto».
Gian Maria Fara, fondatore e presidente dell’Eurispes, è un signore gentile e ha un’arma formidabile: la disarmante franchezza. Dev’essere per questo che i professionisti del giustizialismo non l’hanno ancora lapidato (come nemico del popolo, avrebbe detto il magnifico Paolo Villaggio). Lui invece dice quello che pensa, cose incredibili visti i tempi, con una tale serenità che l’interlocutore, se malintenzionato, si paralizza. E appunto, non gli manda i gendarmi con i pennacchi e con le armi, per citare un altro genovese qualsiasi, Fabrizio De Andrè.
Insomma, Fara è intervenuto al convegno di incredibile spessore organizzato due giorni fa a Tivoli, dalla Procura e dall’Ordine dei commercialisti della città laziale. Si è parlato di “Codice antimafia e corruzione”. E lo studioso che guida uno dei maggiori enti di studi sociali del Paese ne ha approfittato per ribaltare un dogma: «Non credo proprio che l’Italia sia tra i Paesi più corrotti del mondo. Secondo le agenzie internazionali da noi il malaffare produrrebbe un giro da 80 miliardi l’anno: non sta né in cielo né in terra».
Ci spieghi, professore.
È semplicissimo. Le agenzie internazionali si affidano a indicatori soggettivi. Del tipo: si intervista un campione e si chiede: ‘ Lei ritiene che nel suo Paese la corruzione sia particolarmente diffusa? ’. In Italia la risposta è ‘ sì’ nella stragrande maggioranza di casi. Quando poi si va a chiedere alle stesse persone se si sono personalmente imbattute in casi di corruzione, se l’hanno vista con gli occhi per così dire, la risposta affermativa arriva in 3 casi su 100. Ma questo secondo elemento, chissà perché, nel paniere delle classifiche pesa molto meno.
Chiarissimo. E perché gli italiani danno risposte così definitive?
Le rispondo a partire da un altro esempio. Nel nostro ultimo Rapporto sul sistema Paese, il trentesimo, abbiamo interpellato i cittadini sull’immigrazione: la gran parte degli italiani è convinta che gli stranieri rappresentino ormai il 30 per cento della popolazione. Purtroppo l’immaginario collettivo si nutre di paure, di allarmi, di fake news. Avviene anche con la percezione dell’insicurezza, che si diffonde nonostante le statistiche sui reati siano in calo. Ma lei mi chiede come siamo arrivati ad alterare la percezione dei fenomeni fino a questo punto.
Infatti: come?
Ecco, la dinamica è singolare: più combatti un fenomeno e più lo rendi percepibile, lo sovraesponi, e poiché gli indici internazionali si basano proprio sulla percezione, l’Italia passa per un Paese corrotto nonostante combatta più di altri la corruzione, nonostante riesca probabilmente a ridurne l’effettiva incidenza rispetto ad altri grandi Paesi. Abbiamo organizzazione dal punto di vista delle strutture investigative e inquirenti, particolare severità nelle misure, abbiamo l’Anac: tutto questo diventa un danno. Avviene anche con la mafia: certo che da noi la criminalità organizzata si è manifestata in forme straordinariamente aggressive e penetranti, ma è anche vero che abbiamo messo in campo strategie di contrasto rimaste finora ineguagliate. La corruzione, o la mafia, appaiono perché le combatti.
È un paradosso da farsi venire le vertigini.
Scusi, ma lei crede davvero che a qualche giudice francese sia mai venuto in mente di incriminare un grande operatore economico del suo Paese per aver corrotto il governo della Nigeria? Nel nostro caso avviene eccome, lì neanche ci pensano: così noi finiamo per essere i corruttori, francesi e inglesi diventano dispensatori di virtù. Eppure non è che non paghino tangenti per avere grandi appalti da Paesi stranieri: ne pagano pure di più forti, è una pratica ancora più consolidata, ma nessuno ne parla, quindi non esiste.
Lei pretende di confutare un teorema, come osa?
Vogliamo parlare dell’agroalimentare? Noi dispieghiamo, nell’ordine: Nas dei carabinieri, Guardia di finanza, Istituto prevenzione frodi, le Asl, le Direzioni distrettuali antimafia. Un lavoro incessante, diffuso, per prevenire le sofisticazioni. Ne ricaviamo l’immagine negativa di un Paese in cui si adultera di continuo. In Germania non lo si fa mai, a quanto pare: ma non è così. È che lì non esistono forme di controllo paragonabili alle nostre. Vogliamo restare in Germania?
E perché no.
Si sono accorti della ’ ndrangheta con la strage di Duisburg. Fino a quel momento non esisteva. Ci fu un caso di clamoroso riciclaggio, un operatore che arrivò ad acquistare qualcosa come 800 immobili solo con pagamenti in contanti. Evidentemente erano felici e contenti che qualcuno investisse tanto, da noi al terzo appartamento ti inceneriscono. Sono solo esempi, è per dare l’idea dell’atteggiamento prevalente.
Quindi lei, da sociologo, ritiene infondato che gli italiani siano naturalmente inclini alla corruzione.
La corruzione è sempre esistita in qualsiasi Paese. Gli italiani hanno in più, forse, una spiccata capacità di autocritica e un pizzico di masochismo.
Ma lei si rende conto di abbattere un dogma, di sfidare una verità incontestabile, vero?
Detto francamente, me ne infischio. Sono un laico, per me i dogmi non esistono: ci sono solo informazioni vere e informazioni false. Sarkozy è accusato di essersi lasciato corrompere lui, da un governo straniero. Giscard d’Estaing era omaggiato da Bokassa in diamanti, e sono solo i primi casi che vengono in mente. Non capisco perché noi italiani dobbiamo sempre sentirci peggiori. Ripeto, anziché essere giudicati positivamente per gli sforzi compiuti nelle azioni di contrasto, paghiamo il fatto che tali sforzi alimentano una percezione alterata nella nostra opinione pubblica.
La corruzione sopravvalutata produce anche la delegittimazione della politica, punto di caduta di tutto il malaffare: con la conseguenza, fatale, che i cittadini si trovano di fatto privi dell’unico strumento di rappresentanza a loro disposizione.
Ho sempre pensato che il dramma di questo Paese sia in una doppia articolazione della morale. Il che determina, tra l’altro, che gli italiani si sentono migliori della classe politica che li rappresenta. È un errore di fondo che compiamo di continuo. Dai rapporti col fisco, perché a evadere sono sempre gli altri ma poi anche chi è lavoratore dipendente e si vede trattenute le imposte fino all’ultimo centesimo esce d’ufficio e va a fare il secondo lavoro in nero, tale errore, dicevo, si verifica ovunque, dal fisco alle relazioni personali. La stessa cosa è peccato se fatta dagli altri, così e così se la facciamo noi. Quando realizzammo il nostro quarto rapporto sulla pornografia, un esponente del mondo ecclesiale ci disse: per chi viene a confessarsi la pornografia è sempre quella che maneggiano gli altri, di sé si dice sempre ‘ io non pratico pornografia ma erotismo’.
Fantastico. Ma ancora sulla politica, eccedere nel rappresentarla come indegna non finisce per tenere lontane dall’impegno pubblico proprio le persone che potrebbero offrire il contributo migliore?
È così. Ma a sua volta la crisi della politica rischia anche di diventare il capro espiatorio della crisi generale della classe dirigente.
Come si spiega la crisi generale?
Nel presentare il Rapporto Italia di quest’anno l’Eurispes ha come sempre messo a fuoco il sistema- Paese, ma mai come stavolta ha segnalato la rottura fra i due termini del binomio: il sistema da una parte appunto e il Paese dall’altra. Due separati in casa che non s’intendono più.
C’è stato un momento in cui il discorso sulla corruzione è partito per la tangente? Nella seconda metà degli anni Duemila, in particolare, tutti le campagne contro la cosiddetta casta e sul presunto costo della corruzione non hanno anche determinato una svolta nelle dinamiche del consenso, tanto da favorire per esempio la nascita del Movimento di Grillo?
A questa dinamica del consenso assistiamo tuttora e mi pare che la percezione alterata sul malaffare abbia deciso in gran parte anche le scelte più recenti degli elettori. Non si può stabilire con esattezza quanto, ma di sicuro in una misura importante.