PHOTO
Il carcere può alimentare il circolo vizioso della sofferenza psichica? Può diventare una sorta di amplificatore dei disturbi mentali e dove non si è in grado di assistere i detenuti adeguatamente? Alcuni fatti possono darci qualche indizio. «Ho chiesto di poter andare in bagno a fumare, mi hanno dato un accendino. Sono controllato a vista da tre uomini della polizia penitenziaria. Mi siedo sul water e mi metto a fumare a torso nudo, i pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima, due punti di sutura che mi sono fatto pugnalandomi con una penna». Così scrive Fabrizio Corona in una missiva indirizzata a Massimo Giletti, conduttore di Non è l’Arena. Dopo essersi provocato delle ferite in segno di protesta contro le decisioni del giudice di revocargli gli arresti domiciliari, Corona ha iniziato a mordersi la ferita provocandosi altro sanguinamento. Il suo avvocato Ivano Chiesa: «Vorrei parlare con la ministra Cartabia» Fabrizio Corona era piantonato e sorvegliato 24 ore su 24 nel reparto di psichiatria dell’Ospedale Niguarda, poi lunedì sera è stato riportato in carcere a Monza. Il suo avvocato Ivano Chiesa ha chiesto al Tribunale di Sorveglianza, che gli ha revocato i domiciliari, la sospensiva dell’esecuzione e ha anche fatto ricorso in Cassazione sul provvedimento. Aggiungendo: «Vorrei parlare con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, perché ho delle cose da dirle e non riguardano solo Fabrizio Corona, ma anche gli altri detenuti come lui. «Fabrizio può far male solo a se stesso. Non mangia da 12 giorni e non stava in piedi: erano 8 contro uno, come se lui fosse pericolosissimo». A chi gli chiedeva se Fabrizio Corona sia intenzionato a continuare lo sciopero della fame, l’avvocato Chiesa ha risposto: «Lo conosco, so come è fatto e so che è un uomo che non si piega. Va a morire. Perché ritiene di essere vittima di un’ingiustizia. L’ho supplicato di bere o mangiare almeno qualcosa perché ho bisogno che lui sia in forze». Il legale fa presente infine: «Non ho ancora visto il foglio di dimissioni, spero che ce lo daranno. Questo Tribunale di Sorveglianza lo ha rimesso in carcere senza nemmeno una perizia psichiatrica». Chi ha un disturbo psichiatrico difficilmente riesce a ottenere trattamenti adeguati Il caso di Corona e il clamore mediatico che ne è conseguito fa emerge ancora una volta il problema della patologia psichiatrica e della possibilità di cura nei contesti carcerari. Su questo punto interviene Carlo Lino, Garante dei detenuti di Regione Lombardia. «Ricordo – commenta il garante regionale - che la salute e la dignità delle persone ristrette in carcere è affidata all’Istituzione e farsene carico nel migliore dei modi è un dovere e, al contempo, un indice che qualifica la nostra società». Lio prosegue: «L’esperienza che ho maturato mi porta ad affermare che, all’interno degli istituti di pena, le persone a cui è stato diagnosticato un disturbo psichiatrico difficilmente riescono ad ottenere trattamenti adeguati». Sempre il garante rileva come «i Garanti sono costantemente impegnati nel tentativo di risolvere le criticità che si riscontrano nelle strutture carcerarie e alcuni macroproblemi impongono di riflettere non sulla gestione del quotidiano ma sul sistema nel suo complesso. La finalità della pena è sempre la riabilitazione degli individui ed è orientata, per principio, al reinserimento dei condannati in un possibile contesto socio-lavorativo». Il caso del detenuto costretto a bere dallo scarico del wc In realtà, il tema della psichiatria in carcere è ritornato alla ribalta anche con un caso denunciato dall’associazione Antigone e riportato da Il Dubbio. Qualche mese fa un famigliare di M. si rivolge al Difensore civico di Antigone. L'uomo è detenuto nel reparto di osservazione psichiatrica, “Il Sestante” del carcere di Torino. Verso la fine di agosto, la famiglia di M. viene informata di un tentativo di suicidio del ragazzo a seguito del quale sembrerebbe essere trasferito in una "cella liscia", denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. La "cella liscia" si chiama così perché è vuota e i detenuti vengono lasciati senza niente che non siano le quattro mura lisce della stanza. M., stando a quanto riferito, avrebbe passato diversi giorni in questa cella, e con l’acqua chiusa, ci è stato riferito, avrebbe addirittura bevuto dallo scarico del wc. La situazione peggiora, si agita, e la prassi che ci viene narrata è quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedare il detenuto. M. subisce un trattamento sanitario obbligatorio che non risponderebbe a nessuna perizia psichiatrica. Trascorre nove mesi continuativi nella sezione dedicata a soggetti in acuzie del reparto di osservazione psichiatrica, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni. Il Garante nazionale in visita al carcere di Torino Del caso si è subito interessato il Garante nazionale delle persone private della libertà effettuando una visita ad hoc nel carcere di Torino. Si è recato nel penitenziario per incontrare una rappresentanza delle persone ristrette nella sezione femminile che avevano indirizzato nei giorni scorsi una lettera – pubblicata recentemente su Il Dubbio - con osservazioni sulla realtà della propria esecuzione penale e con proposte circa la possibilità di ridurre il persistente sovraffollamento. Come scrive il Garante, «l’occasione ha fornito la possibilità di verificare anche la permanenza di condizioni assolutamente inaccettabili nella parte dell’Istituto che ospita persone in osservazione psichiatrica». Più volte, infatti, il Garante nazionale ha segnalato che le condizioni previste per chi si trova in condizioni di disagio psichico, spesso molto rilevante, all’Interno della sezione prevista non sono rispettose né della dignità e della sofferenza delle persone coinvolte, né della dignità di coloro che operano nella sezione con compiti di garanzia e sicurezza in una situazione di grave difficoltà.