Angelo Massaro non è mai stato troppo in silenzio. Nemmeno dietro le sbarre, dove per oltre quattro lustri ha continuato a gridare, forte, la propria innocenza. Lo hanno arrestato, processato e condannato per tre gradi di giudizio per un reato che non ha mai commesso: l’omicidio di un suo amico.

A febbraio del 2017, dopo aver ottenuto la revisione del processo, i giudici di Catanzaro lo hanno riconosciuto innocente. Ma prima ha trascorso la metà degli anni che ha dietro le sbarre. Oggi, a 54 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ne avrebbe dovuti scontare 24 di anni in cella, tre anni in più rispetto a quelli messi per riconoscere la propria innocenza. E tutti quegli anni in carcere li ha passati per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. Per una consonante: gli investigatori che lo hanno intercettato hanno appuntato “muert”, che in pugliese vuol dire morto, al posto di “muers”, che significa, invece, oggetto ingombrante. Una lettera sola ha stravolto la vita di un ragazzo che all’epoca aveva solo 29 anni e un bimbo nato da soli 45 giorni.

«Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all'asilo. Ho detto questa frase: “Faccio tardi, sto portando u muers” – racconta -. Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona che non è mai stata sentita dagli inquirenti».

Gli investigatori, quel giorno, non verificano cosa effettivamente Angelo Massaro stia trasportando. E passano quattro mesi prima che qualcuno lo interroghi. «Mi chiesero se ero mai stato a San Marzano, senza dirmi perché me lo domandavano», dice. Le manette arrivano sette mesi dopo quella telefonata.

«Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo, il mio compare d’anello – racconta -. Sono stato privato dell'affetto dei miei figli. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo che ascoltando bene la telefonata avrebbero capito». Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo e la vicenda diventa sempre più ingarbugliata. «Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Avrei potuto dimostrare tutta la verità subito». Ma nessuno sa rispondere ad Angelo Massaro ora.

La sua fiducia rimane invariata anche nel corso del processo. Tanto che la difesa rinuncia a sentire testimoni, sapendo che non c’è prova alcuna della sua colpevolezza. «I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili», spiega infatti. All’improvviso, però, spunta un pentito. «Ci siamo opposti ma non è servito – racconta Massaro -. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo».

Per tre gradi di giudizio, invece, questo basta e avanza. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, ma non viene concesso. E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata – “muers” – possa avere diverse interpretazioni. Le motivazioni delle sentenze, nel merito, non hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso.

Il caso si è riaperto solo nel 2012, dopo una lunga battaglia da parte del suo legale, Salvatore Maggio. La Corte d'appello di Potenza aveva infatti negato la revisione del processo, poi concessa dalla Cassazione nel 2015. Il processo è quindi finito in Calabria, a Catanzaro, che ha ordinato l’apertura della cella dopo 21 anni trascorsi lì da innocente.

«Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori», racconta ancora Massaro. Che stenta a credere di aver potuto passare metà della sua vita da recluso per un errore. «Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità», racconta ora. Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani. «Il ministero della Giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie», spiega.

E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli, nonostante il tribunale avesse certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. «Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli – denuncia -, il Dap si è completamente disinteressato». Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua «e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza».

Angelo oggi racconta la sua storia in giro per l’Italia. A Catanzaro, in carcere, ha iniziato a studiare giurisprudenza, arrivando a scriversi da solo l’istanza di revisione. L’ha inviata a molti avvocati, fino a quando non ha incontrato Maggio, che ha deciso di credere in lui. Così si è rimboccato le maniche, riascoltando tutti i testimoni in grado di smontare l’accusa. Nelle sue mani prove importanti: Massaro il giorno dell’omicidio non si trovava a Fragagnano, luogo in cui Fersurella scomparve, bensì a Manduria, al Sert.

A sostegno della tesi dell’innocenza anche alcune testimonianze e le intercettazioni di un altro processo, “Ceramiche”, nel quale l’uomo si professa più volte innocente. «Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione», aveva sottolineato il legale dopo l’assoluzione. Prove che vengono valutate soltanto negli ultimi due anni, quando ormai la pena è stata quasi totalmente scontata tra le carceri di Foggia, Carinola, Taranto, Melfi e Catanzaro. La libertà, ora, la vive da uomo spaesato, felice ma arrabbiato.

Perché la spiegazione di quanto accaduto non è ancora arrivata. «Chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale», dice. E invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, dove molti processi sono stati rivisti e ribaltati. «Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei suoi affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio – evidenzia -. Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato».

Massaro ha potuto riabbracciare sua moglie, all’epoca solo 22enne, e i suoi figli. Una felicità che cresce assieme alla frustrazione. «Perché ho fatto questi 21 anni di carcere?», si chiede a cadenza regolare. Perché, ribadisce, non è il carcere ciò che non riesce ad accettare, «ma la condanna per un crimine così efferato – ha concluso -. Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe lottato per dargli giustizia?».

(Foto: errorigiudiziari.com)