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«Noi siamo all’avanguardia in Europa sul trattamento dei detenuti. Il nostro Paese non è affatto indietro». Ma «chi ostacola la creazione di nuove carceri migliori, si rende responsabile di far patire ai detenuti condizioni inaccettabili». Lo afferma Giovanni Salvi, Procuratore generale della Corte di Cassazione che, intervenendo ad un webinar sull’ergastolo ostativo, in vista dell’udienza di domani della Corte costituzionale sull’esclusione della liberazione condizionale in assenza della collaborazione con la giustizia (per i condannati all’ergastolo per delitti di associazione mafiosa e di contesto mafioso), ha detto: «Non è possibile immaginare che sia solo la collaborazione a determinare l’effetto di rottura» con il contesto mafioso. «Attendo con fiducia questo bilanciamento non facile tra l’esigenza di dare quello che noi già abbiamo da tempo, cioè che l’ergastolo non è "fine pena mai", e lo è solo se non ci sono indici di possibilità di reinserimento sociale, come ci ha detto la Corte europea». «Dobbiamo bilanciarlo - prosegue - con situazioni particolarmente difficili che altri paesi non hanno e che noi abbiamo. Ma non è e non deve essere un aggravamento di pena. La possibilità di reinserimento deve essere valutata con attenzione estrema facendo riferimento anche alle organizzazioni di provenienza». Secondo Salvi, considerare un «elemento di valutazione la dissociazione verbale» sarebbe «pericolosissimo perché andrebbe ad incidere su un principio fondamentale del diritto penale, che non è delle opinioni e dell’interiorità, ma delle condotte», che non sono «la partecipazione ai programmi rieducativi». «Io ho conosciuto le carceri di altri paesi - racconta il Procuratore generale della Corte di Cassazione - che forse sono meglio delle nostre dal punto di vista delle strutture ma non per quanto riguarda il trattamento, su cui noi non abbiamo molto da farci perdonare dagli altri paesi europei e questo lo dobbiamo ricordare o l’effetto è boomerang». Piuttosto, rilancia, «chi ostacola la creazione di nuove carceri migliori, si rende responsabile di far patire ai detenuti condizioni inaccettabili». «L’Italia - ha ricordato - è uno degli ultimi paesi in Europa, ed anche al mondo, per rapporto tra detenuti e popolazione». La corresponsione di pene in modalità più miti per reati dovuti ad ignoranza e povertà o la possibilità per quei circa 3mila detenuti che hanno già scontato gran parte della pena, di proseguire in detenzione domiciliare, sono strumenti previsti. «Ma non funzionano bene - spiega - per varie ragioni anche burocratiche», o perché spesso molti «non hanno domicilio. E sarebbero necessarie strutture che li possano accogliere» ma non sempre ci sono. «Già da alcuni anni sono stati avviati progetti per consentire a queste persone di avere alloggio. Abbiamo avviato un lavoro in tal senso, coinvolgendo Cdp, molte carceri e anche l’Ue, ma c’è ancora difficoltà a far intendere le diverse parti in gioco, tra cui l’istituto penitenziario, i magistrati di sorveglianza, il pubblico ministero e l’ufficio per l’esecuzione esterna - commenta - Si può fare tanto con la legislazione esistente. Molti - ribadisce in conclusione - non vanno in detenzione esterna a causa di una mancanza di edilizia».